In questa diffusa febbre della “sagra” di un qualcosa per
far “riscoprire” sapori antichi (da supermarket) e padri nobili (tutti signori
medievali buoni) mi è capitato di assistere, in un paese di confine della
Basilicata, a una “scalata” dell’albero della cuccagna, gioco in uso nel mondo
contadino da cui tutti sono scappati ma
oggi ripensato con una fasulla nostalgia
da Eden perduto.
Prepotente mi è venuto un giulivo ricordo di….Di quando anch’io
ci provai. Avevo tredici anni. Prima ancora che agli adulti,
anche a noi ragazzi era permesso di
provare a scalare per allungare la mano a quel ben di dio appeso in cima. Lo permettevano per dare sfogo a noi
sbruffoncelli o per farci assaporare la sconfitta? Chissà.
Sapevamo che occorreva un certo vigore per farcela. Sapevamo pure di essere simili
a quei tanti Ercole che vedevamo nei
film dell’epoca. Lui vinceva sempre! E
noi perché non sfidare il bitume che
ricopriva il tronco? Allora io e il mio amico Franco, convinti ed entusiasti,
cominciammo a cospargere il tronco di segatura per creare attrito e inerpicarci
meglio. Ma quel bitume vischioso dopo due metri ci face scivolare giù col culo
per terra. Impietoso. E quelli intorno a
ridere e fischiarci fino a farci
vergognare come mai provato prima (allora ancora non si usava applaudire
comunque).
Con mani e vestito imbrattati
di nero mi presentai a casa. Mia made si arrabbiò, pro forma direi. Mio padre
sorrise…c’era passato anche lui.