domenica 7 novembre 2010

INCONTRI


Era novembre del 1963 ed ero infervorato nello scrivere per una rivista di cinema un articolato-saggio su Pasolini. In quel momento i preti e i benpensanti erano arrabbiati con lui per “La Ricotta”, uno degli episodi del film ROGOPAG (acronimo delle iniziali dei registi Rossellini, Godard. Pasolini, Gregoretti). Egli aveva rappresentato una parodia della Passione. Per questo aveva subito anche una condanna per vilipendio alla religione. Dopo di che dovette apportare alcune modifiche alla pellicola.
Volli intervistare il regista-poeta di cui avevo letto “Ragazzi di vita”, “Le ceneri di Gramsci” e “La religione del mio tempo”. Mi ricevette nella sua casa all’EUR. I suoi abiti riflettevano l’ ordine borghese: giacca e cravatta a modo. Il salotto era austero con pareti di un bianco smorzato e suppellettili essenziali. Per “sciogliere” l’atmosfera, aprii la conversazione accennando ai suoi dialoghi del film “La notte brava” di Bolognini (1959). Mi disse, non in confidenza ma con tono fermo, di non essere stato soddisfatto dei film tratti dai suoi romanzi. Secondo lui, le sue idee erano state troppo alterate e perciò aveva deciso di dirigere lui stesso un film. Questi eano i motivi che lo avevano spinto a girare “Accattone” (1961).
A questo punto si alzò ed andò in un’altra stanza mentre sua madre (che occhi penetranti aveva!) con gentilezza rara mi porse un caffè. Rientrò con una cartellina gonfia di ritagli di giornali. “Ho letto il suo giudizio su quel mio film”. Tirò fuori la mia recensione. “A conclusione del suo discorso lei dice – e lesse - :”Insomma Pasolini riesce senz’altro nell’intento di documentare un certo aspetto della nostra società. A mettere in evidenza le insufficienze spirituali e umane di una certa classe sociale e dell’impossibilità di questa classe a competere con “les possesseurs privés des moyens d’expression [i possessori privati dei mezzi di espressione]. Ed è questa una delle caratteristiche della “humanitas christiana” di questo autore. Piaccia o non piaccia”.
Si fermò un momento. Ripose ii ritaglio nella cartellina. Guardandomi dritto negli occhi osservò con voce appena percettibile, come se mi chiedesse scusa per quel che stava per dire: “Veda, voler far passare questo mio impegno come humanitas christiana penso che non sia cosa facile, specie dopo l’enciclica “Mater ed Magistra” che insiste e conferma alcune idee che sono state bene individuate dai marxisti come principali cause della alienazione dell’uomo attuale…” E si fermò dandomi il tempo di riflettere sulla mia eventuale risposta. Cosa che feci dicendo: ”L’humanitas christiana è essenzialmente estranea alle esigenze dottrinali. Così io la concepisco. Perciò, per essere chiari, occorre separare e mettere bene in evidenza le due cose”.
Il discorso continuò assumendo una piega filologica e filosofica insieme: ci intrattenemmo, per una buona mezz’ora, su quella che era il pomo della discordia, due modi diversi di intendere “humanitas christiana”. Finimmo addirittura per far capo, in due diverse prospettive, a sant’Agostino.
Arrivammo al motivo per cui ero da lui. Lo informai del mio proposito di scrivere un articolo-saggio e gli sottoposi, per correttezza, il questionario inviato ad alcune personalità dell’epoca relativo ai film fino ad allora da lui girati (Accattone, 1961: Mamma Roma, 1962; La Ricotta, 1963). I quesiti erano cinque. Lui ne condivise quattro. Gli riportai alcune risposte già pervenutemi cominciando dallo scrittore e critico cinematografico napoletano Giuseppe Marotta. Il quale concludeva così il suo parere negativo: “Pasolini è uno scontento perché è un artista; gli duole il mondo, la brutale concretezza del mondo: e ciò gli accadrebbe tanto se si trasformasse in pagine del ‘Capitale’, quanto se diventasse segnalibro dei Vangeli”. Lo scrittore non batté ciglio.
Lesse anche le risposte già datemi dal critico romano Giulio Cesare Castello, da Filippo Sacchi, critico del settimanale ‘Epoca’, Gian Luigi Rondi de ‘Il Tempo’, Alessandro Blasetti, regista. Questi concludeva la sua lettera, un po’ affettuosa: “Con le sue lacune mi sembra uomo moderno, giusto, dignitoso e tenace; non credo di offenderlo dicendo che spesso mi sembra anche buono”. Il regista non batté ciglio.
Gli passai il bel foglio intestato con la risposta avuta da don Giovanni Rossi, fondatore ed animatore della Cittadella Pro Civitate Christiana di Assisi. “Mi è caro rispondere che in me è quanto mai viva questa certezza: di ogni uomo si deve dire sempre bene perché nell’anima di ciascuno è segnato il volto di Dio. Sono tutte lucenti di amore le opere del Creatore nella natura, ma ancora più splendide quelle del Redentore nella vita di ogni anima. Sin dal primo incontro che ebbi con Pasolini gli volli molto bene e prego il Signore che gli doni sempre più chiare illuminazioni cristiane”. Il poeta accennò ad un sorriso rompendo così l’espressione ermetica avuta durante la lettura dei vari pareri letti.
E proprio alle “Settimane del cinema” della Cittadella di Assisi lo incontrai la seconda volta. Si dovette difendere, sempre con garbo ma con un grande forza critica, dagli attacchi di alcuni cattolici ancora chiusi nel loro labirinto di certezze controriformiste, e dagli insulti di alcuni giovani fascisti presenti in sala, i quali, ricevuta una risposta piccata, lasciarono rumorosamente la sala con dispiacere di don Rossi che per natura tendeva ad ‘unire’ gli uomini e non a distinguerli secondo categorie ideologiche.
Si passò poi a parlare del “cattolicesimo” dei film di Fellini, di cui proprio quell’anno era uscito il bellissimo 8 e mezzo. Si discusse dei piani-sequenza della pellicola, dell’interpretazione degli attori, dello stile narrativo del regista romagnolo (allora nei dibattiti si parlava di questo prima ancora del ‘messaggio’ del film!). Sinceramente, Pasolini glissò su tutto ciò puntando il suo intervento sui significati della pellicola felliniana, giudicandoli espressione del fallimento “una borghesia sempre in cerca di alibi e di un cattolicesimo imborghesito.”, e altre cose che non di lode. Tutte collocate in una cornice marxista.
Successivamente si seppe, perché fu lui stesso a dirlo, che la sera, nella chiuso della camera della foresteria, lesse il Vangelo e che tale lettura gli ispirò il film ”Il Vangelo secondo Matteo”.
Dopo di che egli andò in Palestina per i sopralluoghi per gli esterni. Ne tornò insoddisfatto. E cominciò allora a visitare il Sud per trovare luoghi più confacenti alla sua idea di “ambiente arcaico”.
Lo incrociai al Gran Caffè di Piazza Prefettura. Io ero qui a Potenza per fare una ricerca sull’ innamoramento in Basilicata (da cui nacque un libro) e lui era di passaggio proveniente da Matera. Cominciammo parlare davanti al bancone del bar.
(continua)

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