Mancano pochi giorni al nostro raccoglimento
nel silenzio e, con la mente piena di ricordi, al nostro andare nella città
senza tempo. Di solito la si visita almeno una volta l’anno: l’1 o il 2 di
novembre. Si entra nei suoi viali ed essi
hanno il profumo pungente dei cipressi bagnati dalla pioggia appena
cessata e dall’umidità incombente. Hanno l’odore dei fiori sui quali indugiano sospese le ultime gocce.
Non c’è il bisbiglio inzuppato d’acqua degli uccelli. A prima vista il cimitero
di Potenza non ha nulla di particolare: ha i suoi morti nelle tombe più o meno antiche, più o meno
lussuose - che inutile spreco e quanta sciocca ostentazione!- o segnate da croci,
spesso di legno, povere. Ha i riquadri orizzontali di marmo a sigillo di fosse
profonde. Scritte sopra tutte queste tombe sono sempre più avare di notizie sulle
persone alle quali è appartenuto il cuore che il vento ha roso e poi è andato
via. Pare che le nuove lapidi abbiano scoperto l’inutilità delle bugie un tempo
narrate: “padre affettuoso”, “grande lavoratore”, “donna fedele”, “ragazza
illibata”, “professionista integerrimo”, e via dicendo con queste qualità
sempre auspicate e sempre rinviate. La pietà perdona tutto a tutti. Ora le lapidi sono scarne di notizie,
finalmente. Noi che veniamo a visitarle comunque ci portiamo sulle spalle la
tristezza fatta di una tela di ricordi che ancora profumano di vita.
Percorriamo viali e vialetti,
saliamo scale e attraversiamo cancelletti e nemmeno per un momento ci dimentichiamo che questa è terra di gente di
Potenza: dalle foto ti fissano le donne anziane che hanno vissuto col perenne
bacio della rassegnazione. Ti seguono gli occhi delle mamme dal volto forte e
dolce come la seta. Ti guardano i
contadini che hanno molto bevuto per dimenticare la loro lunga povertà. Ti
incalza lo sguardo di tanti altri sul cui volto è scritto che la loro vita fu
tutta un’attesa o una bugia. Cerchiamo con gli occhi le foto di ragazze che
avevano il seno gonfio di miele. Guardiamo i ritratti da cui ci fissano
sbigottiti i giovani nati come semi di luce. Il silenzio dei loro amori di un
tempo ci penetra a poco a poco dentro le midolla. Consummatum est!
Tutti se li ha portati via la
Grande Signora, la Morte. Li ha depositati davanti al cancello principale
perché a lei è negato l’accesso al cimitero. Lei prende gli uomini altrove,
lontani da quel recinto, vivi nella natura, potente, grandiosa, sempre bella
nonostante lei, la Morte. Il suo campo di caccia è dunque la vita. Davanti al
cancello del cimitero Ella porta soltanto le spoglie mortali, solitarie, perché già abbandonate dall’anima. E tutti i potentini
che furono esseri umani portati qui si mescolano con la terra e con gli alberi e con i fiori in un
tutt’uno di dissolvimento e di odori. Dopo qualche decennio si fonderanno con
il suolo e diventeranno definitivamente incontrastata proprietà della Città.
Rimangono a Potenza dove stavano. Assieme a noi. Solo che noi e loro esistiamo
in diverse dimensioni temporali. Camminiamo lungo le stesse strade che
conservano la memoria dei loro passi. Dietro le facciate restaurate o pitturate
a nuovo resistono i contorni delle case un tempo da loro abitate: in pietra
viva e malta, umide o sotto il livello
stradale o in appartamenti moderni in cui dimenticare di discendere da una
povertà antica o in altri vani, ariosi ed orgogliosi, in cui consumare e
occultare abusi, tradimenti, prevaricazioni.
Ora noi occupiamo le case costruite per
conto loro. Passeggiamo all’ombra degli alberi piantati da loro. Certo, tutto continua ad esistere per noi. Siamo noi che non esistiamo per loro. Noi conosciamo molte
cose sul loro passato. Loro non conoscono più niente del nostro presente.
Se essi sono tutto questo perché
allora lasciamo che la polvere si
ammucchi sulle lastre di marmo delle loro tombe? Perché ci basta pagare la
bolletta della “luce perpetua” per testimoniare la nostra attenzione destinata
a diventare sempre più aleatoria? Perché lasciamo i fiori appassiti nei portafiori rendendo
squallido il provvisorio rigurgito di affetto? Perché abbandoniamo accanto ad
altre tombe i contenitori di plastica
dei detersivi usati per pulire il sito
funebre di chi un tempo abbiamo amato? E’ civiltà tutto questo?
Perché il sindaco De Luca,
ingegnere, e i suoi uffici tecnici, hanno scarsamente vigilato sulla qualità
dei nuovi manufatti? C’è da rimanere perplessi. Forse hanno dimenticato che, volenti
o nolenti, noi tutti dovremo trasferirci in quei quartieri sotterranei. Allora
perché non costruirli bene, “questi” quartieri?
Perché non mettere un freno al mercimonio dei loculi praticato da costruttori e dalle cosiddette Opere
più o meno Pie? Perché, visto il dislivello del terreno, a volte anche
accidentato, non costruire degli scivoli per i diversamente abili? Anch’essi
hanno dei trapassati da onorare. Perché non mettere, sparse nel cimitero,
panchine dove gli anziani possano sedersi a prendere fiato e forse anche a
meditare sul loro tempo ormai prossimo a consumarsi? Le giustificazioni tecnico-burocratiche
sicuramente non mancano.
Spinti da forte desiderio di vita varchiamo il cancello
lasciando ai morti il loro cimitero e la loro solitudine, infinita. Ci
ritroviamo nel centro storico tra lo sciamare di giovani e di vecchi, di
ragazze e di donne, a ridere con gioia o
a scambiarci una chiacchiera o a sussurrare parole forse ammiccanti o forse maldicenti,
a smanettare con lo smarphone messaggi anche senza senso. Sono tutti segni di
vita della città immersa nel tempo. Eppure bisognerebbe insegnare, come si
faceva una volta che nascita e morte non sono pareti, ma sono porte. Si, porte
intercomunicanti. Invece continuiamo a
dire stupidamente che la Morte è ingiusta. Ma perché la vita è forse giusta?
Pubblicato su "Il Quotidiano del Sud", 30 ott. 2016
1 commento:
Una riflessione di notevole profondità, con slanci lirici che sfiorano corde emotive più o meno celate in ognuno di noi e producono risonanze interiori delle quali l'angoscia, ineluttabile poiché cumsustanziale all'esistenza, si fa inevitabilmente leit motiv... ma ci inducono anche a cercare in ogni cosa, con disperata voracità dell'intelletto e dei sensi, una traccia, un segno sia pure appena avvertibile della grandiosa, struggente bellezza del mondo... Siamo protesi verso la bellezza perché sospinti dalla percezione di quel continuo e deciso, seppur sempre più debole e sordo, alternarsi di sistoli e diastoli, percezione che ci rende ogni istante ulteriore più prezioso e più denso di senso. Sono certo, carissimo Angelo, che il tuo contributo perverrà a toccare anche l'animo di quei 'comuni mortali' i quali, per volontà dei più, esercitano la decisionalità... Ma la bellezza del mondo, Opera originaria dell'Altissimo, è invero affidata al muto operare ed ai gesti per lo più inosservati di ciascuno di noi nel nostro vagante incedere attraverso i giorni prima di giungere a riconfluire su quel sentiero che ci conduce tutti a varcare quel cancello...
Emilio Lastrucci
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