venerdì 12 agosto 2016

QUEI RITI COLLETTIVI CHE RACCONTANO LA DEVOZIONE LUCANA
"IL QUOTIDIANO DEL SUD", 12 agosto 2016


E’ qui la festa? Si, certo,  e non è una sola, sono ben 1308. Tutte feste religiose tenute ogni anno in Basilicata. Oltre che terra di maghi – come ha detto De Martino -, oltre che regione di contadini senza storia – come ha sentenziato Levi -, oltre che luogo privilegiato di briganti – come insegna la storia dei vincitori -, oltre che terra di emigranti – com’è narrato e non ancora scritto nella storia della sofferenza lucana, be’, la Basilicata è anche terra ricca di un patrimonio di feste religiose, alcune molto gettonate (vedi Riguadro) , altre meno.
Di questo patrimonio culturale però non si parla nelle cattedre universitarie. Esse si attardano a celebrare De Martino e Levi creando nella cultura dei giovani un cono di pregiudizi verso la Basilicata secondo il quale tale regione è economicamente, socialmente e culturalmente ancora come descritta dai  due autori di ben cinquant’anni fa ed oltre (ne fa fede anche la recente dichiarazione di un illustre giornalista del Nord!).  
La Basilicata non può avere ancora cucita addosso l’etichetta di “terra di magia” (e fa pena vedere giovani filmaker lucani insistere ancora su questo registro). La magia era presente in gruppi sparuti e  veniva utilizzata come supporto delle pratiche religiose, quando esse si mostravano carenti nei risultati sperati,  o di integrazione della medicina, malamente presente. Non era dunque un bisogno primario, ma secondario della cultura sociale della regione.
       Circa lo stare fuori dalla storia del contadino lucano, certo, può essere vero se per storia è quella da noi intesa secondo le metodologie contemporanee, ma egli ha vissuto nella “sua” storia tutta imperniata sul calendario. Ad essere precisi egli ha vissuto  dentro il calendario” delle feste perché erano esse a segnare il tempo della semina e del raccolto, della mietitura e pigiatura del vino, in una parola a dare scansione allo straordinario e all’ordinario, al quotidiano, all’ economia, al  modo di ragionare e anche al modo di intendere i rapporti d’amore. In sostanza esse avevano la funzione di sacralizzare il tempo e lo spazio                                                                   
        Tutto questo non vuol dire, sia ben chiaro, di avere a che fare con un  popolo religiosissimo. Assolutamente no. Ma è certamente un popolo che ha avuto per “maestri” della propria mentalità santi e madonne, spesso intesi coi piedi nella magia e con la testa in paradiso. Alcuni aspetti di questa storia l’hanno studiata Gabriele De Rosa e Antonio Cestaro, da storici. Io, più modestamente da antropologo, ne parlo ampiamente nel libro Feste Lucane – Genealogia di una identità,  testo di 660 pagine, stampato da Edigrafema di Policoro. Nella prima parte ho posto delle domande: perché il lucano e laborioso? sottomesso? rassegnato? Risposta: uno dei principali modelli culturali che, nel corso dei secoli, ha determinato il suo modo di pensare, di operare, di lavorare è stata la religiosità. Essa ha regolato le solenni malinconie del lucano, figlie della povertà e della sottomissione all’interno delle quali egli ha vissuto anche esaltanti forme di impeti generosi, di adesioni sentite, di slanci per riscaldare il cuore, che, unite a quelle altre, componevano il quadro della vita vissuta.  
        La ritualità “fatta carne” nei modi e nelle forme dei riti è descritta nella seconda parte. E’ qui si parla  paese per paese, madonna per madonna, santo per santo, miracolo per miracolo, bestemmia per bestemmia affinché risulti chiaro quel particolare rapporto di anima e di sensi che il lucano aveva con la divinità. Questo  almeno fino al 1960, data convenzionale presa come spartiacque tra passato e presente contrassegnato dal “miracolo economico”, che cambia molte cose anche in Basilicata.        
               Per facilitare la consultazione c’è il Calendario generale  curato dal ricercatore Giuseppe Melillo  e per i più curiosi non manca la ricerca dei documentari cinematografici girati sulle nostre feste da importanti registi, curata dal giornalista Rocco Brancati.                                                                                     
               Perché il 1960? Fino ad allora la religiosità lucana aveva la sua origine e giustificazione nella cultura contadina. Anche la Chiesa avvia  il grande processo di riforma liturgica e culturale con il Concilio Vaticano II (1962-1965).  Di pari passo tutti vengono stregati dal consumismo sempre più forsennato e quindi dalla televisione e quindi dalla globalizzazione e quindi dalla rete. Tutti elementi  che si pongono come  nuovi segni dei tempi”.
Volendo fare un discorso legato al territorio c’è da osservare che dopo il 1960 l’asino scompare, il contadino diventa usciere nell’ufficio pubblico o  lavora al Nord, il figlio è a scuola per consentirgli di mettere piede nell’ascensore sociale. Si ha un esaurimento nervoso? Si va dal psichiatra, non più dal santo guaritore (s. Donato). Si ha il mal di gola? Si va in ospedale, non più da s. Biagio. La grandine o la siccita distruggono il raccolto? Si reclama dalla Regione lo stato di calamità senza più portare in giro per le campagne i “santi della pioggia” (s. Rocco ed altri). Anche la Madonna ha ridotto i suoi miracoli in paese. Se li si vuole, che si vada ad invocarla a Lourdes, a Medjugorje. Non è questo un ragionamento irriverente, ma soltanto esemplificativo di come siano cambiati i rapporti anche all’interno della  religiosità popolare.  C’è da essere pessimisti sul suo futuro? Potrei essere preoccupato, ma sono cosciente dei mutamenti culturali in atto, i quali comportano anche notevoli punte di degrado, figlio di cambiamenti spesso affrettati e inopportuni. In molti paesi, oggi, la gente partecipa ad una festa religiosa come se andasse ad un padiglione fieristico. La cornice è diventata festa, la festa è svilita a cornice.
Convegni, tavole rotonde, conferenze, manifestazioni folkloriche, cortei storici sono tutti pieni di buona volontà a reclamare il recupero dell’identità lucana. Emerge però una contraddizione: c’è distrazione, reticenza, infarinatura laicista che non porta a focalizzare, discutere, reinquadrare  la religiosità popolare nella quale affonda la genealogia della nostra mentalità, della nostra cultura.  E’ storia. E’ un patrimonio di dignità e, per certi versi, anche di  grandezza del territorio lucano. E’ storia,al pari di quella dei briganti, delle lotte contadine, eccetera.
 Voglio ricordare, a laici e preti, una considerazione di Thomas Mann: “quanto più profondamente le radici dell’ essere umano arrivano allo strato insondabile di ciò che plasma e alimenta il nostro io, tanto più “caricano” spiritualmente la nostra vita, tanto più rendono degna l’anima della nostra carne”.
 



 



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