VENERDI SANTO E E SELFIE
E’ una peculiarità dei nostri
tempi quella di concentrarsi più sul “come” che sul “perché”. Oggi i media
offrono sempre di più le occasioni e i
modi per offrire la possibilità all’utente di avere il “mantello della
visibilità”. E l’ambiente circostante sta a guardare, per lo più divertito, a
volte, invidioso.
Nei grandi avvenimenti
contemporanei – visite papali, partite di campionato, raduni sindacali , ecc. –
la visibilità è molto importante e consente di pronunciare il fatidico “io
c’ero”. Lo conferma la capacità magica del selphie! Si partecipa
ad una di quelle manifestazioni-di-massa della Settimana Santa? Perché no, lo dimostra anche il selphie
scattato accanto ad uno dei figuranti –
Addolorata, Cristo con croce in spalla,
Veronica, ed altri personaggi citati nei vangeli o aggiunti della fantasia popolare.
Mai però accanto a Giuda. Non ci si può accomunare col traditore
per eccellenza! Il selphie lo si fa con persone
di successo, o per bene, o con amici. Lui questo lo sa e perciò non sollecita alcuna
inquadratura. Non così invece gli altri
figuranti che in tale consapevolezza si predispongono come personaggi
televisivi. Curano che le vesti scendano a plomb, che il trucco sia ben fatto,
che la “caduta” (sotto la croce) sia da urlo (chi è anziano ricorderà che ad
ogni caduta si levava un coro di ‘oh! che rimandava ad ancestrali dolori), per
meglio suscitare il brusio degli aipod e
l’ affollamento di telecamere tutti utili
ad esaltare ogni particolare dello spettacolo. Succede a Barile, Atella ed altri paesi del
Vulture, tanto per citarne alcuni.
Si svolgono però anche solenni
processioni penitenziali con una compostezza lodevole – le si vedono a Ferrandina, Montescaglioso,
Filiano e in altri paesi lucani –. Pare
una compostezza fuori tempo se si considera la violenza del linguaggio,
l’arroganza dei comportamenti, le prevaricazioni nelle relazioni sociali che ci ammorbano. Essa può perfino apparire
una contraddizione! I protagonisti –
uomini un abito nero e guanti bianchi, donne vestite a lutto, preghiere sillabare
e non gridate, canti dolenti in semitoni – tutto concorre a creare un clima di
raccoglimento che in certi momenti pare perfino irreale. Per il selphie si aspetterà
una sosta e lo si scatterà non con Cristo morto o l’Addolorata – sono soggetti
troppo impegnativi -. Il click sarà con
quelli dalla compostezza compiuta e dall’eleganza austera che “decorano” la
processione, un tempo penitenziale. Di essi non si può non essere orgogliosi! Però
nessuno più si chiede, neppure i preti: ma quei figuranti, che in qualche modo
si coinvolgono personalmente nella riproposta della Passione di Cristo, si preparano
spiritualmente all’evento? Che importa
saperlo.
Un tempo non si diceva che queste manifestazioni
erano specchio della pietà popolare? Chi
lo nega. E’ cambiato il loro modo di essere realizzate e vissute? Chi può
negarlo. Ieri come oggi queste del
Venerdì Santo continuano ad essere un
riflesso della storia sociale e religiosa di un popolo a causa della varietà dei significati e per la
mescolanza dei caratteri e la ricchezza di motivi che le caratterizzano. Fin qui una risposta può filare bene. La
religiosità popolare ha però bisogno di un altro elemento, molto forte e
irrinunciabile: il “bisogno individuale”. Ora la risposta fila meno bene. C’è
di mezzo il razionalismo, il naturalismo, la laicità, il formalismo (Dio mio
quanti “ismi”!) che hanno reso opaca, o addirittura vanificato, la leggerezza della anime
credenti. Ricorriamo allora ad una risposta credibile: ciascuno può vivere la
Settimana Santa secondo la sua cultura,
la sua sensibilità, ma soprattutto per quel che il suo spirito “vuole”
collocare nella Passione di Cristo. E per questo non occorre scattare il selphie.
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