giovedì 29 maggio 2014


Ecco l'incipit del mio libro “Feste Lucane – Genealogia di una identità”, in corso distampa presso la Casa Editrice ediGrafema di Policoro
         
                                                 OUVERTURE
Qualcuno ha scritto che profondo è il pozzo del passato.(1) Ma molto più profondo è l'abisso dell'animo umano! Se giustamente viene raccomandato di procedere con molta cautela nel sondare quel pozzo, quanta maggiore prudenza è necessaria per cogliere qualche segno dai bordi di quell'abisso dell'anima che appartiene a ciascuno di noi?
Qui, in Basilicata, da tempo vivono cinquecentomila persone, più o meno. Ieri la gran parte di esse era di contadini, detti anche “cafoni” (è necessario ripeterlo?). Poi c'erano i non molti artigiani, detti “artieri”. Poi i pochi signori, prima i baroni e dopo i nuovi ricchi detti “galantuomini”. Molte anime, dunque, diverse tra loro per censo. Parrà strano o forse iperbolico ma, secondo le diffuse riserve mentali, il “valore” delle anime era legato alla condizione sociale di chi le possedeva.
Il livello più basso di corpo e di anima era considerato quello dei cafoni. I qali non chiedevano al mondo di avere per loro un' attenzione particolare, anzi sapevano che mai nessuno avrebbe apprezzato il loro stare appesi alla vita. Per ridere malignamente, alcuni dicevano che essi smuovevano appena l'aria e che per questo stavano fuori dalla storia. Chissà poi se era vero. Di sicuro è che quando il tempo si stancava di circolare nelle vene di quei cafoni, essi se ne andavano, uno alla volta, a popolare la foresta di stelle dove abita Dio - così pensavano -, dove non c'era da potare alberi, rivoltare zolle, spaccarsi la schiena, e dove non avrebbero mai sentito la nostalgia di quel che avevano lasciato quaggiù.
E quaggiù nessuno di quelli rimasti si sarebbe preoccupato di conservare a lungo il ricordo del loro faticare in campagna. Delle loro corte bevute in cantina tenendo gli occhi al tresette e la bocca alle risate sulle cose del cielo e della terra. Del loro affabulare in piazza contro il governo ladro. Del loro ridere rumoroso sull'aia a raccolto terminato, quando il raccolto andava bene. Ma si sa, la gente vive, ha il suo momento buono, i suoi baci, le risate, gli suoi abbracci, le parole dolci, le gioie e i dolori. Ogni vita umana è un universo che poi crolla su se stesso e non lascia niente dietro di sé se non pochi oggetti resi preziosi dalla scomparsa di chi li possedeva, e che diventano importanti come un frammento di quell'esistenza che è sparita. Ma tutto alla fine svanisce. La vita è fatta così: va a viene.
Però c'era sempre qualcuno a ricordarsi che quel cafone era stato capace di andare a guardare negli occhi la Madonna o san Rocco o san Donato quando il Padreterno mandava una malattia al suo asino o a suo figlio. Loro, santi e madonne, potevano guarirli anche se sapevano che qualche volta egli li bestemmiava o andava poco in chiesa perché non amava i preti. Quando parlava con la Madonna era come se parlasse a sua madre, e una mamma perdona sempre tutto. Un santo per lui era come un fratello, proprio per questo doveva insistere un po' per ottenere da lui una grazia perché, proprio come un fratello, qualche volta gli resisteva. E così il cafone si metteva a sperare.
Nelle pagine che seguono è possibile trovare i modi, non tutti, concepiti e rappresentati dal cafone lucano nella sua relazione con la divinità per amore di se stesso, della propria famiglia, dei propri animali. C'è da cogliere ciò che la sua anima ha abbellito spesso col sentimentalismo e, perché no, col fanatismo proprio di chi non possiede nulla se non la promessa di una qualche felicità futura in un paradiso lontano.Sappiamo però che la realtà è obiettiva, appunto in quanto realtà. La consapevolezza di ciò è che l' amore per se stessi, per la propria famiglia, per i propri animali, per quel suo pezzo di terra, doveva trovare per forza un' intesa con la speranza. E ciò spingeva la sua realtà a un adattamento utile ad avere pazienza. Pazienza per quel che gli mancava. Per quel poco che il Padreterno gli mandava ogni anno. Per quel pochissimo che “il padrone” gli concedeva. Che altro poteva fare, dannarsi l'anima? Era proprio essa, che, nel chiuso di se stessa, sopportava e intanto sapeva che il suo aver fede e il suo modo di pregare servivano a non farla cadere nella solitudine della disperazione. E se qualche volta questa brutta bestia la prendeva, allora chiamava anche il diavolo con la magia perché l' aiutasse. Ma quel cornuto, si sa, non da niente per niente e lei, anima di cafone, non poteva perdersi per sempre. Allora? Allora Madonna e i santi “non” potevano, anzi non dovevano lasciarla sola a marcire giorno dopo giorno tra bisogno e speranza. E questo attesa la acquietava. Forse. Forse la giustificava.
Nelle pagine che seguono voglio parlare, con mano leggera, della religiosità di tale anima vissuta e vivente in Basilicata, spazio angusto. Religiosità che si esprime nelle oltre mille manifestazioni annuali vissute da molta gente in forme semplici o, spesso, in mortificante povertà. Ne parlerò con espressioni di confidente perplessità, a volte anche di leggera ironia, ma sempre con quella rispettosa serietà richiesta quando si intende cogliere sui bordi dell'abisso dell'anima alcuni segni della sua identità.


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