domenica 4 aprile 2010

USCIRE DALL'EGITTO


Ci sono giunti all’orecchio i canti di vittoria. Coprono le grida forsennate, i proclami solenni, le promesse enfatizzate, la demagogia truculenta, eccetera. Basta! Basta con tutto ciò che ha riguardato le elezioni. Oggi è Pasqua. Prestiamo orecchio ad un’altra vittoria, di tipo religioso, se credenti, oppure di tipo storico, se laici. Vediamo.
In lingua aramaica, la lingua di Gesù, si diceva “paskhà”. In greco “pàscha”. Entrambi i termini corrispondono all’ebraico “pesàkh”, di significato poco chiaro. Il popolo lo spiegava così: “passare oltre, risparmiare”. Prima della comparsa degli Ebrei, la festa di pasqua veniva celebrata dai nomadi ed era connessa al cambiamento annuale del pascolo, cioè alla transumanza. Di qui il significato di “passare oltre”. E ancora: essa veniva celebrata in funzione della protezione dei greggi contro i démoni. Di qui il significato di “risparmiare” (=sottrarre) le pecore alle forze maligne.
Gli Ebrei si appropriarono di questa festa dopo aver lasciato l’Egitto, dove vivevano in schiavitù dalla quale li tirò fuori Mosè. Essi “passarono oltre” il Mar Rosso per andare ad occupare la terra promessa, Israele. Da allora cominciarono a celebrare la “pesàkh” (pasqua) come momento importante per esprimere la gioia della libertà conquistata.
Inizialmente essi la celebrarono soltanto all’interno delle singole famiglie. Dopo, dal 621 a.C., un po’ alla volta assunse il carattere di “festa di pellegrinaggio” verso Gerusalemme. Nel suo Tempio il giorno di pasqua avveniva l’uccisione degli agnelli, a ricordo di quegli altri sgozzati in Egitto affinché il loro sangue contrassegnasse le porte degli ebrei-schiavi e li sottraesse così all’angelo sterminatore. Nel Tempio li scannavano i rappresentanti delle singole comunità partecipanti al pellegrinaggio. Pasqua divenne così la solennità principale dell’anno.
Il festeggiamento vero e proprio, il banchetto pasquale cioè, continuò ad avvenire nelle case e con gruppi di almeno dieci persone. Prima dell’inizio del banchetto, il padrone di casa, o il capogruppo, lavava i piedi ai commensali, che si mettevano poi a giacere per consumare il pasto. Il quale si apriva con un atto utile a rafforzare la “identità”, la “coesione” e l’“alleanza” con Dio: il capofamiglia, o il capogruppo, pronunciava una formula di consacrazione sul primo calice di vino scandendo le parole “Bevete: il Signore ha liberato il suo popolo dalla schiavitù. Sia lode al Signore”. Quindi bevevano prima lui e poi i commensali. Seguiva l’antipasto di verdure con intingoli di frutta.
Il capo porgeva un secondo calice di vino ma, prima di bere, narrava brevemente la storia dell’ esodo dall’Egitto, come descritto nel libro biblico chiamato Deuterenomio (capitolo 26). Terminato, si cantava insieme il Salmo 113, che celebra l’esodo. Finalmente veniva servito il pasto principale: agnello, pane non lievitato, succhi di frutta e vino.
Seguiva una terza coppa di vino e il canto del Salmo 114: “Amo il Signore perché ascolta il grido della mia preghiera. / Verso di me ha teso l’orecchio nel giorno in cui lo invocavo ….”. Il canto prosegue con una serie di implorazioni che sono tra le più belle di quelle che inneggiano alla vita. Che invitano alla prudenza perché “ogni uomo è inganno”. Che confermano però l’ importanza degli altri: “Adempirò i miei voti al Signore/ davanti a tutto il suo popolo,/ in mezzo a te, Gerusalemme”.
Il banchetto terminava con un quarto calice di vino, sempre benedetto dal capo.
Il Cristianesimo recepisce molti elementi figurativi del banchetto pasquale ebraico: lavare i piedi in segno di umiltà; consacrare il calice in cui il vino si tramuta in “sangue prezioso di Cristo” che redime i battezzati; distribuire il pane benedetto, simbolo del “corpo di Cristo” di cui cibarsi (=comunione); consumare l’agnello, metafora di “Cristo nostro agnello pasquale, senza difetti e senza macchia”, sacrificato affinché il credente diventi “una pasta nuova” (le parole citate sono di san Paolo).
Dopo il II secolo questo modo di concepire la solennità si modifica. La Chiesa crea la liturgia pasquale articolandola su tre livellii: Passione, morte e Resurrezione di Cristo. L’insieme costituisce il cosiddetto Mistero Pasquale, che diventa il momento centrale della religione cristiana.
La Pasqua di oggi giunge al nostro orecchio come eco di certezze antiche. Antiche ma che fino ad ieri ci alimentavano e che oggi ci lasciano perplessi. Noi tutti siamo coinvolti nella crisi di senso dei nostri giorni. Crisi che è una ulteriore forma di disorientamento nella nostra vita quotidiana in cui stentiamo a credere che essa – la nostra vita cioè – possa trovare il suo significato in una storia salvifica di tipo trascendente. E non volendo credere in tale storia, permaniamo nell’Egitto della solitudine, del sesso, della droga, dell’egoismo, del conformismo, della volgarità dell’arroganza del potere. Basta tendere l’orecchio in giro! Intanto ci accontentiamo dei nuovi riti: fatui. Quel che ci rende privi di speranza è il nostro rifiuto di qualsiasi idea-forte che ci faccia “passare oltre” tale condizione. Darwin ci ha insegnato che possiamo bastare a noi stessi. Dubito...

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho apprezzato moltissimo il suo saggio , gli ultimi paragrafi merirerebbero di essere oggetto di meditazione anche in ambienti ecclesiastici, soprattutto in rituali come la Messa che comportano omelie talvolta noiose ed inconcludenti.
Il finale però mi lascia perplesso: dubito ... E poi?
cordiali saluti.
imperio.ciro@alice.it