
Lui era sacerdote. Subì il fascino di Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano. E divennero amici. Decenni prima aveva stretto amicizia con Giuseppe Bottai, ministro dell’ Educazione Nazionale durante il Ventennio. Stabilì buoni rapporti con don Sturzo e De Gasperi, con Prezzolini ed Ungaretti, e con tanti altri ancora, italiani e francesi.
Ebbe un interessante carteggio con Giovan Battista Montini (poi Papa Paolo VI) e con Angelo Roncalli (poi Papa Giovanni XIII). Questi citati, rappresentano soltanto un piccolo numero degli uomini del mondo letterario e politico con i quali Giuseppe De Luca instaurò una “amicizia intellettuale”. Tutti uomini di alto livello, dunque, da lui conosciuti a Roma, dove abitava stabilmente da quando era stato ordinato prete.
Nella capitale era venuto anni addietro per la sua formazione sacerdotale. Aveva iniziato gli studi dai gesuiti a Ferentino, presso Anagni, in provincia di Frosinone. Di li era passato a Roma nel 1911 per entrare nel Collegio ecclesiastico Germanico-ungarico. Completati gli studi nel Pontificio Seminario Maggiore, fu ordinato sacerdote. Era il 30 luglio del 1921. Aveva ventitrè anni, essendo nato nel 1898 a Sasso di Castalda.
In questo suo paesino lucano aveva conosciuto presto il dolore: da bambino perse la madre. Sua nonna materna lo prese con se, a Brienza, per insegnargli a leggere e scrivere. Stette con lei fino alla quarta elementare. Suo padre era un muratore generico e perciò con reddito povero e discontinuo. In paese gli dissero che Giuseppe era un ragazzino molto intelligente e sarebbe stato un peccato non farlo studiare. Ma si era in tempi in cui le scuole non erano ancora diffuse. Esse stavano a Potenza ma li egli non poteva mandarlo perché non aveva soldi per mantenerlo. La soluzione più praticabile era quella di far entrare il ragazzo in un istituto religioso. Era d’uso a quei tempi fare ciò quando si voleva vedere un figlio valorizzato nelle sue capacità intellettive. Così il ragazzo lasciò Sasso per approdare a Ferentino, dai gesuiti.
Ordinato sacerdote, dunque, don Giuseppe decide di trascorre a Roma il resto della propria vita, “tra gli studi e per gli studi”. Ha meditato sui Padri della Chiesa. Ama però sant’ Agostino. Si lascia influenzare da Henri Bremond, uno dei più notevoli storici e critici letterari della Francia degli anni Venti. Ma si rende conto che non gli bastano gli studi teologici già compiuti. Occorre capire “come“ pensano “gli altri”, i laici cioè. Legge allora molta letteratura contemporanea, tra cui Mauriac, Gide, Claudel, Rivière.
S’ iscrive alla Facoltà di lettere dell’Università di Roma per sviluppare i suoi interessi di storia e filologia. Qui ha modo di entrare in contatto con Vittorio Rossi, filologo e letterato, Nicola Festa, grande filologo classico, nativo di Matera, Ettore Pais, notevole storico dell’antichità, Giovanni Gentile, Ernesto Buonaiuti, teologo scomunicato dalla Chiesa per essere uno dei i principali esponenti del “Modernismo” (movimento di pensiero mirante al rinnovamento interno del cattolicesimo). Don Giuseppe ha il coraggio di diventare suo amico e tale rimane anche dopo che Buonaiuti viene cacciato dall’Università per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo.
Questi uomini sono, nel bene e nel meno bene, tra i protagonisti della cultura italiana della prima metà del Novecento. Ad essi va aggiunto Benedetto Croce, conosciuto da De Luca nel 1928.
Ma grande incidenza sulla sua formazione hanno i francesi Luis Duchesse e Alfred Loisy. Il primo è un grande filologo e storico, il secondo un teologo e il più famoso dei modernisti, molto dotto e molto radicale, capace di innescare la grande crisi religiosa del principio del XX secolo e di determinare, di conseguenza, una violenta reazione da parte della Chiesa. De Luca rimane però sempre ancorato alla sua fede pur allargando sempre di più il suo sapere. Certo, non trascura la naturale propensione alla polemica. Neppure mette in ombra la sua forte capacità critica, senza però scadere nella faziosità.
Capiscono questi aspetti della sua personalità, tanto poliedrica e tanto piena di curiosità intellettuale, anche quegli ambienti laici che di polemica se ne intendono, più di tutti l’ambiente letterario fiorentino col quale don Giuseppe ha stretti contatti di collaborazione. Quest’ ambiente è una officina di pensiero e di aspirazioni, di acume e di critica, pronte ad esprimersi sulle pagine de “Il Frontespizio”. A questa rivista De Luca dà il suo apporto qualificante e una fisionomia ben caratterizzata: ritrovare e recuperare tutti quei valori religiosi, sia nell’arte che nella letteratura, andati perduti e restare autonomi dal potere ufficiale (sia ecclesiastico che politico). Impresa difficilissima, data l’arroganza del fascismo e la “chiusura” al mondo moderno del Vaticano. Ma la rivista va avanti.
Il regime e alcuni ambienti della Curia romana tuttavia non capiscono che De Luca è “una figura morale, spirituale e intellettuale caratterizzata, sempre, da una intensa religiosità e da modi espressivi non comuni, sorretti da una finezza letteraria rara.” (Guarnieri) .
Egli dunque riesce a coagulare intorno a quella rivista parecchi giovani che diverranno famosi successivamente, quali, tra gli altri, Carlo Bo, Mario Luzi, Oreste Macrì messi a fianco a nomi che famosi già erano, Papini, Bargellini. Ad illustrarla sono Pietro Parigi, grande incisore, e Giacomo Manzù, giovane scultore.
Con polemica garbata egli batte e ribatte per richiamare l’attenzione dei letterati italiani rimproverando loro di trascurare le correnti culturali europee per rinchiudersi in un provincialismo asfittico. C’è infine una particolarità: su questa rivista De Luca non si firma mai col proprio nome ma con una serie infinta di pseudonimi.
Intanto, grazie all’aver frequentato anche un corso di Paleografia presso l’archivio vaticano, riceve l’incarico di archivista dalla Congregazione per la Chiesa Orientale. E’ presente anche nell’Azione Cattolica, dalla quale se ne esce nel 1931 per divergenze con i suoi dirigenti. Il suo passaggio lascia però tracce nella “Gioventù Nuova”, rivista dell’organismo associativo non gradito a Mussolini.
Questi non gradisce neppure la rivista “Critica fascista”. Solo che a fondarla e dirigere è Giuseppe Bottai, ministro e suo compagno della prima ora. Bottai, “fascista atipico o fascista critico”, come lo definisce De Felice, aveva creato questa rivista per attirare i giovani (“I Giovani devono contestare tutto, devono distruggere per poi ricostruire tutto”) ed inoltre, per criticare, anche se in forma velata, la censura e il conformism

I rapporti instaurati da De Luca con tale rivista, e quindi con Bottai, sono molto buoni. A renderli tali è la comune convinzione che fa capo al pensiero di Luis François Veuillot, uno dei maggiori esponenti dell’Ultramontanismo cattolico della prima metà dell’ Ottocento. Tale pensiero affermava che l’ unico strumento idoneo a salvare la corrotta società moderna poteva, e doveva, essere la forza civilizzatrice cristiana ad opera della Chiesa Cattolica e del fascismo. E quando Bottai nel 1940 fonda la rivista “Primato” con lo scopo di affermare che la politica fascista deve uscire dalla stagnazione statalista in cui è caduto ed orientarsi verso una politica sociale, De Luca ne condivide il programma. (Nel 1959 egli partecipa al funerale del suo amico, ex gerarca e tra i fautori della caduta di Mussolini firmando l’”ordine del giorno Grandi”; gli è accanto Aldo Moro, ministro della Pubblica Istruzione.)
In tutti i suoi numerosi articoli ed interventi su più riviste egli non nasconde mai la propria fondamentale convinzione secondo la quale la cultura della Chiesa deve uscire dalle posizioni difensive su cui si è posta a partire dall’Illuminismo in poi ed entrare in competizione dialettica e costruttiva col mondo moderno. Non deve promuovere “crociate” bensì creare, con le idee, una sorta di “concorrenza” con la cultura laica senza però demonizzarla.
In sostanza, è questa la molla che lo porta a mantenere contatti e stringere rapporti con eminenti uomini tanto di cultura cattolica che laica, e, grazie al suo carattere diplomatico, anche con quegli uomini colti e politici del secondo dopoguerra definiti “nemici della Chiesa”, cioè i marxisti, comunisti e socialisti. Ai politici egli chiede, nei vari scritti, di non dare la preminenza all’ ideologia ma alla cultura promuovendo, a tal fine, iniziative idonee a far crescere le persone e quindi il consenso, che, secondo lui, deve derivare da scelte consapevoli.
Nel 1941 fonda la casa editrice “Edizioni di storia e letteratura”. I suoi scopi sono sostanzialmente due. Aiutare i giovani talenti capaci di elaborare testi di elevato livello culturale ma poco idonei al mercato librario. Stampare studi comprendenti “una filologia unica”, cioè studi in cui non ci sia più separazione tra filologia sacra e filologia profana, secondo la tradizione italiana, ma riunirle in un modello unico secondo l ‘uso europeo. Egli scrive: “Le Edizioni non sopportano preponderanza di sacro sul profano, o viceversa, e neppure preponderanza dell’internazionale sul nazionale: restano fedeli alla loro origine, italiana e di italiani, ma nel grande senso che ha l’Italia nella civiltà”.
Dà il via anche all’”Archivio italiano per la storia Pietà”, che in certo qual modo può considerarsi la “figlia primogenita” delle sue creature culturali e la più intensamente amata. Questo progetto editoriale intende raccogliere la documentazione disponibile sulla Pietà al fine di dimostrare come l’uomo abbia caratterizzato il proprio rapporto con Dio, sia nell’amarlo che nell’odiarlo.
Tanto attivismo e tanto fervore culturale gli lasciano il tempo per studiare ulteriormente? Ebbene, qui emerge un’altra particolarità: don Giuseppe vive la pratica dello studio come pratica di ascesi. Dice, infatti, a tal riguardo: “Dedicarsi nella solitudine allo studio può sembrare chi sa che stoltezza, è invece inizio di sapienza, timore di Dio… Ci siamo dimenticati che l’anima non la salviamo senza impegnare a fondo l’ intelligenza”.
E la sua intelligenza si manifesta anche, come detto prima, per capacità diplomatiche. Negli anni Cinquanta egli si fa mediatore anche tra il Vaticano e personalità del mondo politico di allora, sia della Democrazia Cristiana che del Partito Comunista Italiano.

A tal proposito, nel 1961, in pieno clima di guerra fredda, consiglia Palmiro Togliatti di fare da intermediario per stabilire un rapporto diretto tra papa Giovanni XXIII e Nikita Kruscev, capo dell’ Unione Sovietica, utilizzando uno strumento “semplice”: far inviare da Kruscev un telegramma di auguri al Papa in occasione dei suoi 80 anni. E ciò in segno di “disgelo” tra mondo cattolico e mondo comunista. Kruscev aderisce e Giovanni XXIII gradisce. E’ un successo non soltanto diplomatico ma anche politico di cui parla tutto il mondo.
A causa delle sue idee “ecumeniche” e moderne non ancora praticate dalla Curia Romana, per anni viene da essa tenuto in ombra. Da tale posizione lo tira fuori papa Rancalli, che di lui ha sempre avuto una grande stima e che con lui condivide la preoccupazione di “aprire” la Chiesa al mondo moderno. E quando nel 1962 don Giuseppe è ricoverato in ospedale per una grave malattia, il Papa va a visitarlo. Sette giorni dopo, questo edificatore di cultura muore. E’ il 19 marzo 1962.
Pur vivendo a Roma per molti anni, rimane profondamente lucano. Lui, nato “nel cuore più nascosto della Basilicata”, secondo una sua espressione, ogni qualvolta che tornava a Sasso, vedendo da lontano le sue mura “povere e vetuste” si commoveva intensamente “Piangere, no, troppo sarebbe; ma lacrimare, si, e tutte le volte”.
E’ possibile ammirare la sua immagine stilizzata in uno dei riquadri che compongono la “Porta della Morte” scolpita da Giacomo Manzù per il portone d’ingresso della Basilica di San Pietro.
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