domenica 13 dicembre 2009

IL VALORE SIMBOLICO DEL PRANZO DI NATALE

“Un tacchino è più arcano e maestoso di tutti gli angeli e gli arcangeli!” affermava lo scrittore inglese Chesterton. Era tanto entusiasta di questo animale da volerlo spesso sulla sua tavola. Infarcito, ovviamente! L’ Inghilterra fu il primo paese ad allestire allevamenti di tacchini dopo le prime importazioni dal Messico avvenute nel Cinquecento. A portarli in Europa erano stati gli spagnoli, rubandoli agli Aztechi, che li avevano addomesticati. A quei tempi per il pranzo di Natale si mangiava l’oca. Da secoli ad essa era legata la convinzione che la sua carne aumentasse il desiderio amoroso. La sua bile era molto ricercata dagli uomini perché accresceva la potenza virile! (un viagra casalingo, insomma).
Ma il tacchino, nel giro di qualche decennio, fu reclamizzato dai bottegai inglesi come un “cibo economico natalizio”. Divenne infatti popolare. I sovrani inglesi lo elessero a piatto reale soltanto nel 1815 sostituendolo col secolare cigno. E fu un atto di coraggio perché con tale sostituzione, rinunciarono ad un nobile simbolo antico e familiare. Fin dal Medioevo infatti mangiare un cigno (consentito soltanto ai nobili) significava confermare la discendenza da Goffredo di Buglione (anno 1100), il leggendario “cavaliere del cigno”e primo signore di Gerusalemme.
Il re di Spagna lo mangiò per la prima volta nel 1571 per far dispetto all’arcivescovo di Madrid che riteneva l’animale figlio della terra del diavolo! (il Messico). Il Re Sole lo accolse sul proprio tavolo e, per fare economia, lo impose alla corte.
Il nuovo importato non venne dunque caricato di nessun significato esoterico o nobile o religioso ma di un nuovo simbolo: l’ abbondanza. Un simbolo laico, dunque. E in questa chiave lo adottarono negli USA per celebrare due giorni di eccellenza: il Natale e la festa del Ringraziamento (fine novembre). Lo stesso significato era dato dai contadini lucani al pollo, cucinato in accoppiata con le salsicce del maiale.
Perché tanta preoccupazione di rendere “speciale” il pranzo di Natale? Perché il cibo consumato in questo giorno aveva ed ha un suo valore simbolico. Significa, infatti, tre cose: la solidarietà, l’abbondanza, di lealtà.
La solidarietà umana. A Natale c’è il ritorno a casa. Questa caratteristica nasce però soltanto nel sec. XIX quando l’industrializzazione porta le persone lontane dalle loro famiglie. Fin dall’ antichità, invece, anche gli antenati tornavano a casa la sera della Vigilia. Per nutrire i loro fantasmi si metteva del cibo sul davanzale della finestra. In molti popoli ancora si crede e si fa così. Anche in vari paesi della Basilicata si faceva ciò fino a qualche decennio fa per rinsaldare il legame familiare.
Il cibo che si consuma è poi particolare. Si preparano anche piatti di un tempo, o che gli
somigliano, capaci di ricordare che “così li faceva la nonna”. Aiutano a riesumare nel palato sapori perduti, ieri sapidi oggi insipidi. Per cogliere odori che non stanno più nelle nostre narici, alterate e inquinate.
L’abbondanza. A Natale nessuno ha mai pensato di voler fare la figura del poveraccio. Anche le famiglie con pochi soldi soddisfano il desiderio atavico di abbuffarsi. Ieri però si badava alla quantità. Oggi alla qualità. Il “cenone” della Vigilia è diventato infatti una delle occasioni per ostentate il possesso di cibo qualitativamente importate: salmone affumicato, carni di pregio, prelibatezze, ghiottonerie.
La lealtà consiste nel condividere col proprio gruppo un cibo che dà il senso dell’appartenenza ad una cultura, ad una tradizione e ad una condizione sociale. Così come in Norvegia il cibo-simbolo era, ed è, il “lutefisk” (pesce affumicato), in USA è il tacchino. In Basilicata era il capitone per i ‘signori’, il baccalà fritto per tutti gli altri. Il capitone era già sacro al dio egiziano Heliopolis e fin d’allora era allevato nei liquami per ingrassarsi e per ingrassare…Il baccalà non è mai stato sacro a qualcuno. Perciò lo mangiavano i poveri. Lo impose la Chiesa nel sec. XIII, quando fissò i giorni di digiuno in cui non mangiare carne. E la Vigilia rientra fra questi.
Oggi non è più così. Neppure in Basilicata C’è l’omologazione del supermarket. La quale include anche il panettone. Di origine celtica, importato e modificato dai milanesi, imposto sul mercato mondiale. Sostituisce gli antichi dolci locali! Che qui erano i calzoncelli di ceci, i calzoni di castagne, le frittelle, gli ossi di morti, le ‘ncartellate. Tutti derivati da cerali e tutti beneaugurati. Essi risentivano dell’antica usanza di mangiare dolci nella festa del solstizio d’inverno. La Chiesa, trasformando tale festa in Natale, ha conservato il loro significato: mangiare dolci al fine di propiziare il raccolto del prossimo anno. Inizialmente erano fatti di un impasto di frumento bollito con latte e zucchero. I nobili e il clero per tutto il Medioevo vi aggiunsero arancia, cedro, mandorle, droghe e lo coprirono con pepe nero. Non erano così raffinati i dolci lucani. Essi erano concepiti in rapporto agli scarsi prodotti locali: farina di grano, di ceci, di castagne, uova. Oggi si vendono in pasticceria. E Dio sa quanti se ne mangiano: non per propiziarsi un qualche dio del raccolto ma soltanto per esprimere la soddisfazione dei propri desideri!
(II continua)

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