
Ma il tacchino, nel giro di qualche decennio, fu reclamizzato dai bottegai inglesi come un “cibo economico natalizio”. Divenne infatti popolare. I sovrani inglesi lo elessero a piatto reale soltanto nel 1815 sostituendolo col secolare cigno. E fu un atto di coraggio perché con tale sostituzione, rinunciarono ad un nobile simbolo antico e familiare. Fin dal Medioevo infatti mangiare un cigno (consentito soltanto ai nobili) significava confermare la discendenza da Goffredo di Buglione (anno 1100), il leggendario “cavaliere del cigno”e primo signore di Gerusalemme.
Il re di Spagna lo mangiò per la prima volta nel 1571 per far dispetto all’arcivescovo di Madrid che riteneva l’animale figlio della terra del diavolo! (il Messico). Il Re Sole lo accolse sul proprio tavolo e, per fare economia, lo impose alla corte.
Il nuovo importato non venne dunque caricato di nessun significato esoterico o nobile o religioso ma di un nuovo simbolo: l’ abbondanza. Un simbolo laico, dunque. E in questa chiave lo adottarono negli USA per celebrare due giorni di eccellenza: il Natale e la festa del Ringraziamento (fine novembre). Lo stesso significato era dato dai contadini lucani al pollo, cucinato in accoppiata con le salsicce del maiale.
Perché tanta preoccupazione di rendere “speciale” il pranzo di Natale? Perché il cibo consumato in questo giorno aveva ed ha un suo valore simbolico. Significa, infatti, tre cose: la solidarietà, l’abbondanza, di lealtà.
La solidarietà umana. A Natale c’è il ritorno a casa. Questa caratteristica nasce però soltanto nel sec. XIX quando l’industrializzazione porta le persone lontane dalle loro famiglie. Fin dall’ antichità, invece, anche gli antenati tornavano a casa la sera della Vigilia. Per nutrire i loro fantasmi si metteva del cibo sul davanzale della finestra. In molti popoli ancora si crede e si fa così. Anche in vari paesi della Basilicata si faceva ciò fino a qualche decennio fa per rinsaldare il legame familiare.
Il cibo che si consuma è poi particolare. Si preparano anche piatti di un tempo, o che gli
somigliano, capaci di ricordare che “così li faceva la nonna”. Aiutano a riesumare nel palato sapori perduti, ieri sapidi oggi insipidi. Per cogliere odori che non stanno più nelle nostre narici, alterate e inquinate.
L’abbondanza. A Natale nessuno ha mai pensato di voler fare la figura del poveraccio. Anche le famiglie con pochi soldi soddisfano il desiderio atavico di abbuffarsi. Ieri però si badava alla quantità. Oggi alla qualità. Il “cenone” della Vigilia è diventato infatti una delle occasioni per ostentate il possesso di cibo qualitativamente importate: salmone affumicato, carni di pregio, prelibatezze, ghiottonerie.
La lealtà consiste nel condividere col proprio gruppo un cibo che dà il senso dell’appartenenza ad una cultura, ad una tradizione e ad una condizione sociale. Così come in Norvegia il cibo-simbolo era, ed è, il “lutefisk” (pesce affumicato), in USA è il tacchino. In Basilicata era il capitone per i ‘signori’, il baccalà fritto per tutti gli altri. Il capitone era già sacro al dio egiziano Heliopolis e fin d’allora era allevato nei liquami per ingrassarsi e per ingrassare…Il baccalà non è mai stato sacro a qualcuno. Perciò lo mangiavano i poveri. Lo impose la Chiesa nel sec. XIII, quando fissò i giorni di digiuno in cui non mangiare carne. E la Vigilia rientra fra questi.

(II continua)
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