lunedì 9 novembre 2009

UN PROF. IN AULA TRA DI NOI


Quando io conobbi Lévi Strauss, nel settembre del 1960, ero un giovane italiano appena iscritto ai suoi corsi e con alle spalle gli studi compiuti all’Orientale di Napoli. Lui era famoso nel mondo perché cinque anni prima aveva pubblicato “Tristi tropici”, libro ancora oggi celebre. Nell’ambiente accademico era però già noto per il suo testo “Le strutture elementari della parentela” che aveva rivoluzionato il modo d’intendere la nascita della parentela nelle comunità umane. Noi studenti consideravamo tale testo una “grande opera” di “ampio respiro” e la suggestione ci spingeva a farne una sorta di monumento da idolatrare. Ma egli, col sottile humor proprio della cultura ebraica – era ebreo infatti – ci disse che, se non volevamo “cedere alla stanchezza e cadere nella noia dignitosa”, prima di leggere “Le strutture” dovevamo meditare su “Le forme elementari della vita religiosa” di Emile Durkeim, uno dei padri fondatori della sociologia moderna.
Quest’ultimo libro cambiò radicalmente la mia visione del mondo, forgiata dalla cultura letteraria del Medio Oriente e prima ancora da quella datami dai gesuiti, al liceo. Successe la stessa cosa anche a due miei colleghi, uno israeliano e l’altro irlandese. Insieme gli dicemmo di questa metamorfosi in corso dentro di noi pur senza intuire ancora a quali nuove proporzioni interiori essa ci avrebbe condotto in seguito. Ci disse (leggo dai miei appunti dell’epoca): “Spesso l’immagine che noi ci facciamo di noi medesimi non rimane senza influenza su quella che gli uomini si fanno di noi; la colora e può anche in certi casi falsificarla”. Non capimmo e, presi da un alto stupore, sospettammo una mediocrità delle nostre doti!
Con difficoltà noi studenti raggiungemmo una certa comprensione della sua ”Antropologia strutturale”, pubblicata due anni prima (1958). Quando faceva lezione, il prof. aveva l’abitudine di guardarci negli occhi, uno per uno e, siccome spesso scorgeva in noi qualche titubanza, ci diceva: “Signori, dovete raggiungere una fede in voi stessi se volete che gli altri possano credere in voi”. E ancora: “Non ingannate voi stessi se non sapete dare una risposta ai problemi essenziali… E siate concreti, sempre concreti quando affrontate i problemi dell’uomo”.
Venimmo a sapere che il suo costante invito alla “concretezza” nella ricerca gli derivava da
due padri prestigiosi: il primo era Paul Rivet, lo studioso del popoli delle Ande e fondatore del Musée de l’Homme, il famoso museo antropologico di Parigi. Il secondo era uno dei suoi maestri, Marcel Mauss, l’autore della celebre teoria del dono e del rivoluzionario metodo di interpretare il sacrificio. Concretezza e nuovo metodo erano stati i due strumenti utilizzati da Lévi Strass fin da quando aveva analizzato le popolazioni indie del Bororo e del Mato Grosso, in Brasile, negli anni 1935-38. In quelle foreste aveva incontrato l’Altro. Da tale esperienza era nato, vent’anni dopo, “Tristi Tropici”. E fu subito un successo mondiale. Perché mai? Perché tale libro faceva conoscere l’Altro lontano dagli stereotipi del colonialismo. Perché diceva all’Occidente che anche l’Altro aveva un’anima! (lo dico banalmente).
Questo tema era diventato per Lévi Strass un problema essenziale su cui anche durante le sue lezioni ci invitava a riflettere affinché pure noi potessimo apportare, nel tempo, il nostro personale contributo alla sua soluzione. Focus di tale problema era il “rispetto” dovuto all’Altro, all’infuori del quale, diceva, non vi è scienza e quindi neppure verità.
Su questo argomento batteva molto e non dal ’60. Otto anni prima ne aveva scritto un libro col titolo “Razza e storia” suscitando vaste polemiche, prima fra tutte quelle con un intellettuale d’alto rango suo pari, Roger Caillois. Lo scritto usciva negli anni delle guerre di Corea e d’Indocina (=Vietnam). All’epoca tutti affermavano che in quelle terre si combatteva per il bene dell’ Occidente! Che là si conduceva una nuova crociata di Civiltà contro la Barbarie comunista! Lévi Strauss con quel “libretto” (sono sue parole) accusava invece l’Occidente della sua colpa più grave: l’etnocentrismo. Cioè di avere la certezza di essere biologicamente superiore al resto del mondo. Di sentirsi al vertice della Civiltà. Di considerarsi superiore, per cultura, a tutti gli altri esseri viventi. E che con tali convinzioni nella testa nutriva la caparbia sicurezza di ritenere gli Altri “diversi” e quindi “inferiori” e come tali da “emarginare” o da “assoggettare”. In sostanza l’uomo occidentale – autodefinitosi Civile - riteneva l’Altro un Barbaro. Scriveva, tra l’altro: “Il barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie”, degli altri, è ovvio.
Da questo atteggiamento etnocentrico l’Occidente si sentiva autorizzato “naturalmente” a dover svolgere la “missione” di civilizzatore del resto del mondo. Tutto ciò e trovava anche la sua giustificazione in due principi, uno di carattere biologico e l’altro filosofico. Il primo faceva capo a Darwin. Questi, nel mettere a punto la teoria dell’evoluzione biologica, aveva assegnato all’uomo una superiorità sugli altri esseri viventi per la sua capacità di produrre cultura e di evolvere la propria storia. E in questo i popoli occidentali erano stati più bravi di tutti gli altri. Il secondo principio discendeva da Herbert Spencer il quale, nell’applicare l’ evoluzionismo all’ ambito sociale, affermava che “la mancanza di coesione tipica delle società primitive va surrogata con una centralizzazione del potere in un sistema gerarchico”. L’Occidente aveva dunque l’ ”obbligo di insegnare” all’Altro (Barbaro), bloccato nella sua evoluzione sociale e culturale, i modi di apprendere l’evoluzione verso la Civiltà. Questo cammino doveva avvenire però sotto la “guida costante” dell’uomo occidentale (Civile).
Diceva profeticamente Lévi Srass: “Il fenomeno [della diffusione della civiltà occidentale] è ancora in corso, non ne conosciamo ancora il risultato. Si concluderà con l’occidentalizzazione integrale del pianeta, con alcune varianti, per esempio russa o americana? Appariranno forme sincretiche, come se ne scorge la possibilità per il mondo islamico, l’India, la Cina? Oppure il movimento di flusso sta già giungendo al termine e sarà riassorbito, nel senso che il mondo occidentale è ormai prossimo a soccombere, come i mostri preistorici, a un’ espansione fisica incompatibile con i meccanismi interni che assicurano la sua esistenza”.
Durante le lezioni e nelle conferenze, egli mostrava la sua preoccupazione per la fine che può essere riservata all’Altro, soprattutto se lo si spoglia della propria cultura, di pari dignità a tutte le altre culture umane. In proposito qualcuno di noi osservava che se si reputavano tutte le culture equivalenti tra loro, come egli sosteneva, bisognava allora abolire la possibilità di confrontarle sulla base di valori assoluti. Questo principio, se praticato, avrebbe cancellato non solo la ‘ratio’ dell’ Occidente ma anche quella dei popoli primitivi. Il prof. replicava che “se si continua ad insistere che confrontarsi con l’Altro significa far emergere i presupposti del nostro pensiero, significa allora distaccarci dalla nostra cultura non perché questa sia tutto o la sola cattiva, ma perché è l’unica da cui dobbiamo affrancarci: dalle altre lo siamo già naturalmente”.
Si fermava e quel suo silenzio, voluto, serviva a far fissare dentro di noi quelle sue convinzioni. Riprendeva chiedendoci, con molta ironia, quanti di noi avrebbero fatto il pubblico ministero dell’ Occidente. Non capivamo.
Quasi con tono canzonatorio, ma con parole precise, ci spiegava allora che….[riporto il succo del discorso visto che, all’epoca, non si usava registrare]. Sappiamo che presso gli Altri di solito vanno prima l’esploratore, poi il sacerdote e il mercante. Vanno per diffondere i valori dell’Occidente. In nome del cristianesimo universale cancellano gli dei locali. Neutralizzano la capacità d’ integrazione dell’individuo nella comunità. Distruggono il rapporto armonico che questi ha con la natura. E fanno tante altre cose. Va poi l’etnologo: non per violentare, non per cancellare. Va per capire la civiltà indigena che lo aiuterà a comprendere meglio la propria civiltà e, soprattutto, a capire l’uomo in generale. E concludeva che l’etnologia “mette e deve continuare a mettere in causa ‘la civiltà delle conoscenze’, che è poi la civiltà degli etnologi”; e che l’etnologo deve essere l’amministratore del “cocente rimorso dell’Occidente”. In questo senso l’etnologo poteva farsi pubblico ministero accusatore.
Tutti capimmo che quest’uomo aveva fatto dell’etnologia la “scienza delle differenze”. E ciò cancellava la gerarchizzazione delle culture umane in favore di un “relativismo culturale”.
Un giorno un nostro collega, spesso da noi preso in giro perché pareva uscito da un film dell’Espressionismo tedesco - tetro, dagli occhi infossati, lo sguardo da sniffante - gli pose, con tono insolente, la domanda se tutte quelle sue dissacrazioni della cultura occidentale non discendessero dal Surrealismo francese. Il prof. piuttosto che rintuzzare la maleducazione, gli chiese ironico – fu l’unica volta che prese in giro uno di noi studenti - : “Vedo che lei ama travestirsi da dottor Caligari. Anche lei vuole preannunciare un nuovo Hitler?” “E perché no?”, rispose lo studente strafottente. Precipitò nell’aula un silenzio di piombo. Il prof. si fece serio e diede spazio ad una lunga pausa. Io pensai che forse in quel momento gli stava affiorando nella memoria la sua fuga in America alla vigilia dell’invasione della Francia da parte di Hitler. Anche se a New York aveva stretto amicizia con Roman Jakobson, padre della linguistica e della teoria della comunicazione, e insieme a lui aveva elaborato la teoria dello strutturalismo, aveva pur sempre dovuto sopportare l’amarezza drammatica di una fuga, un allontanarsi dal proprio mondo, amato e odiato insieme ma pur sempre parte della propria vita. Riprese a parlare, con lievità, accennando al contrasto avuto con Caillois proprio sull’argomento Surrealismo-etnologia.
Roger Caillois aveva accusato la “nuova etnologia” (leggi Lévi Strass) di discendere direttamente dallo spirito dissacratore e iconoclasta del Surrealismo nei confronti della civiltà occidentale [va ricordato che André Breton, uno dei padri di quel movimento, si era scagliato contro “il regno della logica” in quanto ritenuto un “segno di bassezza” del pensiero europeo]. Lui, Lévi Strauss, già nel ’47 aveva riconosciuto giusto l’accostamento tra surrealismo e scienze umane dicendo: “Durante gli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, il Collegio di Sociologia, sotto la direzione di Roger Caillois, divenne un luogo d’incontro per i sociologi da una parte, i pittori e i poeti surrealisti dall’altra. L’esperienza riuscì”.
In aula precisò con una frase che ritornò poi in una sua pubblicazione del ’60: “Il Surrealismo –
cioè un momento evolutivo interno alla nostra società – ci ha trasformato la sensibilità, in quanto ha avuto il merito di scoprire, o di riscoprire, in seno ai nostri studi, un lirismo e una probità”.
Fu il riconoscimento di un contributo di temi e di metodo, dunque. E nel volume “Il pensiero selvaggio” (1962) tale influenza è notevole se si pensa alla particolare attenzione da lui posta nell’ analizzare le esperienze di magia dei selvaggi, attenzione che peraltro denuncia il desiderio dell’ etnologo di sottrarsi al razionalismo occidentale, che imponeva categorie filosofiche e scientifiche ormai “chiuse”. A chi gli faceva notare ciò, egli proclamava la propria indipendenza dal Surrealismo. E’ anche vero che restava fondamentale in lui la convinzione che aveva della magia rispetto ai surrealisti allorché puntualizzava “per me il termine ‘magico’ aveva un significato preciso, apparteneva al vocabolario etnologico. Non mi piaceva usarlo in tutte le salse”. Non dunque un significato poetico o lirico o suggestivo, ma uno strumento per conoscere la concretezza dei miti, così a lungo da lui studiati.
Un giorno gli chiedemmo perché quel titolo “Tristi Tropici”. Spiegò che durante il viaggio nella giungla aveva notato l’invadenza della civiltà europea e il conseguente inizio del declino delle popolazioni indigene (l’Altro). Perciò il viaggio verso i Tropici era diventato “Triste”.
Ora il Maestro se n’è andato. Noi, tristi, assistiamo ancora all’arrogante Occidente (Civile) che va a dissolvere l’Altro (Barbaro).

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