domenica 22 novembre 2009

IL FASCINO DELLA LENTEZZA




Si prenda una certa quantità di carne di maiale. Una parte magra ed una grassa. La si faccia a pezzettini e si mescoli con sale, pepe, finocchio o peperoncino. Si riempiano le budella con quei pezzetti cercando di premerli a modo. Al prodotto di questo lavoro si dia il nome di salsiccia. L’appartenenza sociale di chi la mangia non ha importanza. Certo, c’è pure quel tipo che si fa con gli avanzi e gli scarti. Allora non ha la dignità di salsiccia ma di “pezzente”, come la si chiama. E dietro questo nome c’è tutta una storia di povertà e di sospiri come per un’amante molto amata e poco goduta.
Oggi però non sempre è fatta in casa. Le trovi anche impacchettate nei supermarket e qui non si viene soltanto per la salsiccia da mettere nel carrello. Questo è diventato un discreto indicatore dei consumi: contiene poche cose se a spingerlo è una persona anziana. E’ pieno, se dietro gli sta una donna con suo marito impiegato di medio livello oppure operaio e da almeno due bambini che “ordinano” di prendere dagli scaffali questo e quello. La donna fornisce una bella immagine di se: di solito è pulita, qualche volta gradevole, quasi sempre in carne. Il carrello è il suo l’amante palese, ammirato quando è pieno perché cancella la memoria della miseria non molto antica da queste parti. Che importa se lei diventerà più tonda alla vista degli altri e più scivolosa alle mani prensili del suo uomo? Lei affermerà di essere sempre più in salute. Le statistiche impietose diranno invece che è “grassa”.
La pronuncia delle due “esse” dà tutto il sapore della bontà dell’ aggettivo. Fa assaporare il piacere della pigrizia, così tonificante da non farti mai pensare di diventare un immenso rapace. In tale contesto, la pigrizia è diventata un’assoluta virtù. Non soltanto per lei, ma soprattutto per gli uomini che le stanno intorno. Anche questo dicono le statistiche: che il lucano è il più pigro, il più lento d’Italia.
Il vecchio nome dell’ortodossia cristiana chiama tale difetto “accidia”. In passato esso, assieme agli altri sei peccati capitali, consentiva alle buone coscienze di fare ordine nei difficili rapporti col male e di far risuonare nei rapporti umani la cortesia, le opere di bene. Una volta l’accidia era peccato, ma la psicoanalisi e la psichiatria hanno, tra l’altro, modificato la concezione tradizionale del peccato. Pertanto ciò che prima era chiamato vizio (quindi colpa), oggi è oggetto di attenzione dell’ analisi dell’inconscio o di un aspetto della patologia.
Ovviamente, se senti un lucano dirà che egli è sano di mente - e lo è –, che è senza problemi di introversione – la sua è semmai un’eccessiva riservatezza -, che non ha vizi – e non è vero –, e che è falso ciò che la statistica attribuisce ai lucani. E’ ovvio che ciò avvenga perché negare un qualche aspetto non positivo che ci può appartenere non è di moda. Oggi tutti siamo “belli dentro” e il male, piccolo e grande che sia, è fuori. Siamo tutti puri perché la lavatrice ci sterilizza gli abiti, lo sbiancante li rende splendenti, i deodoranti eliminano ogni odore, i disinfettanti fanno da barriera ai germi nocivi. Siamo o non siamo emendati di ogni impurità? Perché allora l’ISTAT ed altri istituti di ricerca si avventurano nel territorio dei peccati e assegnano agli uomini lucani l’”accidia”? Dimentichi della nozione che il catechismo infantile dava a tale peccato, oggi si preferisce chiamarlo in altro modo: pigrizia, lentezza, malinconia, fatalismo. Che confusione!
Però bisogna dire che il dato non suscita il rancore della parte lesa bensì il sorriso di chi la piacevole consapevolezza di vivere in pace. Senza scossoni. Campando del posticino più o meno disceso dal tirannico cielo della raccomandazione (e che fa? l’importante è lavorare). Col mangiare assicurato (perché non c’è più nessuno da noi che muore d’inedia). Con un po’ di soldi alla posta (non è forse bello sapere che la Basilicata è al primo posto per i depositi postali?). Sono soldi che non circolano, ma ci stanno. E proprio perchè stanno fermi, è possibile sostenere di vivere in povertà. Ma perché non aggiungere anche che il lucano è all’ultimo posto in Italia per le malattie cardiache? Egli dice: perché correre? (il territorio è sempre quello ed è pure piccolo). Perché affannarsi quando sono comunque in grado di comprare la macchina per “me” e i “miei” figli? I telefonini, uno per ognuno della “mia” famiglia? Di dare i soldi a “mio” figlio perché vada con gli amici e in palestra?
La mia lentezza non è un peccato contro l’economia perché da noi non c’è l’etica della produttività. A sera il telecomando mi aiuta ad arricchire la mia fantasia
E per dovere di completezza, debbo dire di vivere il mio sesso non come ginnastica e neppure per salutismo ma….
Di una cosa sono certo: dicano quello che vogliono le statistiche, ringraziando Dio, non mi manca niente. Certo, mi piacerebbe avere di più, ma debbo accontentarmi se penso a mia padre, a mio nonno che avevano poco o niente rispetto a me.
Non c’è forse una piacevolezza fisica nella parola “lentezza”? A pronunciarla non è forse una specie di carezza della lingua nel palato? Provateci. Per questo è molto pertinente (azzeccato, direi da impudente) la celebre pubblicità di un prodotto: Che vuoi di più dalla vita?....

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