domenica 5 luglio 2009

E' QUI LA FESTA? NO

INNANZITUTTO, la festa. La bella festa patronale. I fuochi d’artificio all’alba, la banda musicale per accenderti l’allegria, le luminarie pur sempre d’incantamento, le belle coperte alle finestre, le contadine dietro la statua cantilenanti “la novena” dei miracoli del santo, gli effluvi d’incenso fumiganti le strade per coprire l’acre odore degli asini appena passati, i maiali cresciuti nel vicolo spinti in fretta in casa. Era festa.

Non solo queste cose ma pure i pianti ai piedi del santo per una grazia mai ricevuta ma tanto necessaria o per una da chiedere strisciando con la lingua lungo il pavimento della chiesa o per una già avuta e capace di restituire la serenità in famiglia.


E quei contadini ai bordi della strada! Per ogni cosa storta se la prendevano col Padreterno e la Madonna, ma al passare del santo, con gli occhi gli chiedevano di guarire l’asino o di guardare il figlio partito soldato o altro che non potevano chiedere a nessun altro. Loro non pregavano il santo – questo era cosa di donne -, no, lo fissavano per pochi attimi e in tali attimi c’era tutto il loro tempo di speranza o di disperazione.


E poi gli altri “oggetti” della festa: il raro pollo ammazzato, il profumo del ragù sinuoso nei vicoli, l’effluvio dei biscotti appena usciti dal forno, i colli puliti dei ragazzi, la camicia bianca degli uomini, i vestiti odorosi di sapone, finalmente. La corsa nei sacchi, lo scalare speranzoso del palo della cuccagna e le altre gare fatte per ridere, tutt’insieme. Poi sempre loro, i contadini, a sera, sotto la cassa armonica a sentire la traviata, il trovatore, la tosca. Qualche strumento stonava, beh, che fa?, tanto molti di loro le arie già le sapevano a memoria! Era “la” festa.


Questo si viveva in ogni paese lucano per la festa del santo patrono, a memoria di un ricordo antico e per rinforzare le speranze presenti. Ho citato le “cose” della festa, cioè i simboli che la costituivano i quali, come tutti i simboli, si fondavano sulla memoria. E ciò era utile non soltanto all’identità collettiva ma anche per le identità individuali. Preciso: qui si parla di memoria come una forma di “selezione sociale del ricordo” e cioè del ricordo di un passato condiviso e ricostruito continuamente dai protagonisti.


A questo punto vado col pensiero alle lamentele di qualcuno esternate su questo giornale giorni fa (“Preti in bolletta, festa ridotta”). Esse imputano a parroci del paese l’impossibilità di celebrare la festa del patrono san Rocco. Dopo qualche giorno c’è stato il lamento di un altro sul “tradimento” dello spirito della festa dovuto al consumismo. Sono due argomenti distinti nella sostanza ma che s’intrecciano se li rapportiamo a quella selezione sociale del ricordo, cui accennavo. Allora domandiamoci: oggi in un paese il passato è condiviso? No. C’è, semmai, soprattutto da parte dei giovani, un rifiuto. Oggi il patrono è ancora il simbolo di pietà collettiva? No. E’ oggetto di venerazione di certi adulti e di determinati ceti sociali. I giovani venerano il grande fratello, amici, il velinismo, il bere e simili. Oggi il patrono rinforza le speranze presenti? No. Il sindacato è il protettore di chi il lavoro già lo ha. Per i disoccupati, esso alza gli occhi al cielo come le statue barocche fatte apposta così per suscitare commozione, per far piangere su se stessi chi le guardava. Forse ci si rivolge al patrono perché ti faccia trovare almeno un po’ di lavoro nero.


Oggi il santo patrono offre un’immagine di permanenza e di stabilità spirituale? No. Tutti i mezzi di comunicazione sociale ci dicono, a colazione pranzo e cena, di considerare il fallimento dell’ umanità. Di ritenere il proprio paesello come male endemico da cui scappare. Di sopportare i politici, locali e nazionali, come gestori di accomodamenti degradanti. Di consumare molte merci per sentirsi molto sicuri. Insomma, una realtà tremenda ma mutante, sfuggente, come l’acqua, liquida. E allora, in tale contesto, dov’è finita la memoria “sociale”, il “fondo di ricordi” che alimentava l’identità condivisa? E’ giusto parlare ancora della festa come un “momento di consapevolezza collettiva”?


La festa del santo è forse considerata come momento di liberazione dalle costrizioni del lavoro. No. Ci sono i fine settimana per dimenticare. Ci sono le partite di calcio per esaltarsi. In conclusione, la festa non è più sentita dal popolo cose patrimonio dei ricordi (=la memoria collettiva). Ed è per questo che gli abitanti del paese non danno più il loro sostegno economico e “pretendono” che sia l’ente pubblico a finanziarla. Finanziamento, è bene ricordarlo, che in passato veniva fatto dai paesani con la raccolta giornaliera di offerte. I preti non hanno mai finanziato le “cose” profane di una festa.


Questo è stato sempre compito di un Comitato di laici. Perché lamentarsi e non capire che se il “popolo” crede poco darà pochissimi soldi per quel che in passato era la “sua” festa? [un suggerimento: si vuole facilmente raccogliere i soldi per la festa? Si faccia piangere o sanguinare il santo…].

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