domenica 14 dicembre 2008

NELLA STIVA DEI RICORDI


Scendiamo nella stiva dei nostri ricordi per cercare in essa quei momenti particolari che fanno parte della vita di ciascuno di noi e che sono legati alla memoria. Incu-neata nell’anima, essa crea una sorta di nicchia che, col passare del tempo, può trasformarsi in tabernacolo al quale rivolgersi per rendere più belli i momenti gioiosi vissuti o più urgente il bisogno di conforto alla solitudine.
La memoria, dunque, della passata povertà, della mai scomparsa rassegnazione. Con certezza sappiamo che quello di un tempo era il regno della fatica, del dominio arrogante dei ‘galantuomini’. Ma alla memoria piace pensare che allora le case a mala pena erano serrate perché non contenevano nulla di particolare da custodire. Che la gente a sera si inventava qualcosa per ridere. Che nelle cantine fiorivano generose gare di bicchieri di vino cattivo e sguardi di innocente malizia per la cantiniera prosperosa.
Ebbene, nella stiva dei nostri ricordi incontriamo anche un periodo, del passato appunto, in cui l’ anima del “cafone” lucano si saziava “assai assai ” perché per un giorno il cibo era abbondante, relativamente. Perché gli occhi gli lucevano di goduria per il vino a garganella, di quello buono, finalmente. Perché la lingua ballava di piacere per i dolci di cui conosceva da giorni soltanto il profumo. Perché si poteva sfidare allegramente la fortuna con quei giuochi antichi e insoliti che si ricordavano solo in questo periodo. Era Natale! Era il giorno in cui la natura dormiva e la neve faceva dimenticare l’erba su cui d’estate danzavano le lucciole.
Tempo passato, tempo semplice, ché la vita non era un turbine. E i ragazzi per una settimana prima del giorno bello andavano pellegrini di casa in casa a far gemere con rimbombo festoso la membrana forata del tamburo e sfregata da una cannuccia insistente. Era il “cupa-cupa” suonato per augurare una buona Notte Santa. Quel suono chiassoso “doveva” provocare il dono di biscotti, fichi secchi, salsiccia e qualche uova. E alla fine del pellegrinaggio si versava il cibo raccolto su una tavolata per ingozzarsi devotamente come mai s’era fatto per tutto l’anno! Era la felicità dell’amore infantile. Il paradiso della fanciullezza credula.
Sublimavano il loro desiderio d’amore inespresso le ragazze da marito del materano col canto: “Vieni Natale, vieni contento/ ché le ragazze stanno aspettando/ stanno aspettando con tutto il cuore/ frittelle vogliono, col cingolo lo vogliono./ San Giuseppe il vecchierello/ vieni a dormire con me stasera/ ti ho preparato un bel lettino/ sotto il tetto dell’anima mia.”
Verso mezzanotte processioni a grappoli avanzavano verso la chiesa: erano di contadine avvoltolate negli scialli neri e di bambini infagottati alla meglio. Saltavano le pozzanghere in cui la acqua di notte diventava prigioniera del gelo. In molti paesi del materano su usava accendere i falò con fascine per l’intera notte di vigilia. Intorno si radunavano in allegria sopratutto i giovani. Tali falò ardevano per devozione e per ferire di luce le strade appena sfiorate dai fiochi lumi a petrolio.
In chiesa, quando mancava l’organo, un armonium accompagnava la solita voce di quel paesano che, se non fosse stata per la mala sorte, sarebbe diventato tenore! A quella voce si univa il violino stridulo del barbiere. Insieme attaccavano con lamento sentimentale “Tu scendi dalle stelle” e tutte le voci della chiesa facevano a gara per essere una più alta dell’altra - che importa se stonava? - per farsi sentire da Colui che dalle stelle stava per scendere da un momento all’altro. La campanella scampanellava e gli occhi andavano dritti al prete in uscita dalla sacrestia vestito a festa coi suoi paramenti trapuntati d’oro. Che belli! Saliva l’altare e a testa nuda cantava a squarciagola “Gloria in exelsis Deo” e quel Gloria planava sopra le teste per arrivare fino in fondo alla chiesa dove, ammucchiati e muti, stavano gli uomini nelle loro mantelline nere. Loro accennavano ad un segno di croce con la destra a conchiglia quasi a nascondere, per pudore, quel gesto che era cosa da donne. Pure da donne era inginocchiarsi quando il prete alzava l’ostia benedetta. Loro avrebbero fatto soltanto quel gesto che erano abituati a fare da secoli: chinare la testa! Stavolta però dinanzi a Gesù Bambino. Qualcuno rosicchiava una “pettola”. Non era peccato, tanto per lui la chiesa era come casa sua.
Il prete attaccava con la predica: raccomandava di volersi bene e di mettere da parte i rancori che arrugginiscono tutti i santi giorni che il Padreterno manda! Invitava sorridendo minacciosamente a non bere come debosciati! A non bestemmiare come turchi! A non fare tante altre cose. Ammoniva che ogni esagerazione è peccato! E quando poi col suo latinorum scandiva il “Pater noster”, il contadino biascicava invece l’Avemmaria perché conosceva meglio la Madonna che bestemmiava quando qualcosa gli andava storto o che invocava quando l’asino gli stava male.
Finita la messa, tutti avevano gli occhi al presepe ormai pieno del Bambinello dalla faccia bella come una rosa. Fermi ai margini di esso, i bambini con gli occhi correvano per le strade di quella improbabile Betlemme inseguendo le statuine di creta! Attraversavano il ponte, il sentiero, il ruscello; si fermavano davanti alla grotta per guardare Lui che era bello perché era un re. Con l’indice teso gli gettavano un bacio. Le donne ridacchiavano a guardare quelle altre, delle statuine, con abiti sconosciuti e perciò lontane. Le incantava il Bambino senza pianti e senza fame sulla faccia. Lui non sarebbe morto piccolino come capitava alle loro creature che non arrivavano a quattro anni di vita ! Per miseria e malattia ne morivano proprio assai! E la Madonna come una di loro: stava piegata sul Figlio per fargli sentire i battiti del suo cuore, maestro d’amore. Poi si mettevano a contare i pastori attorno alla grotta. Già, i pastori!
Erano figure importanti del presepe, non per le spiegazioni che davano i preti, ma perché essi erano, nella cultura contadina, uguali agli zingari e a tutti quegli altri che non avevano una casa, un paese, una patria. Proprio per questo erano un po’ pazzi. Forse dipendeva dalla loro solitudine. Chissà. Però essi conoscevano le vie delle stelle perché a loro affidavano i passi propri e quelli delle pecore. Alle stelle guardavano anche quando dovevano mungere o tosare. Fissando lo sguardo sui pastori alcune di quelle donne, che per un motivo o per l’altro avevano il marito sempre fuori casa, pensavano maliziose e pudiche che quelli erano uomini che avevano istinti primitivi… Ma messi lì, davanti alla grotta, era come farli ritornare a casa e renderli uguali agli uomini del paese. Pure per loro era venuto Gesù Bambino!
I contadini dalle mantelline nere spiavano per accertarsi che quella Betlemme somigliasse al proprio paese con le case scalcinate e annerite, spesso con ballatoio esterno a due piani. Per vedere se c’era la macelleria, la drogheria, l’erberia piene di ogni ben di Dio che a casa loro non avevano mai. Cercavano la cantina, il fabbro, il calzolaio, l’arrotino, il bottaio. Già sapevano che il “cafone” non c’era perché neppure nel presepe nessuno lo voleva. Gli occhi finivano su san Giuseppe: eh si, lui era il ritratto della pazienza…. Guardavano il Bambino e dicevano sottovoce che pure Lui era stato fregato perché quando era arrivato sulla terra aveva trovato una vita già tutta pronta e l’aveva dovuta indossare come una camicia di forza. Proprio come capitava pure a loro che quella camicia non potevano mai levarsela.
Don…, il prete insomma, spesso coglieva in quei loro occhi fissi a guardare il Santo Nato una malinconia senza tempo in cui amalgamare la sofferenza che rende simile ad un antico dio incatenato alla vita e dalla vita consumato perché povero di ogni speranza. Che dire? Il presepe era, ed è ancora oggi, l’apoteosi dello sguardo!
All’uscita dalla chiesa ogni contadino avrebbe alzato gli occhi al cielo per spiare se la luna aveva bucato qualche nuvola per farsi guardare: se era crescente, l’annata sarebbe stata buona, magra se calante. Le donne invece temevano di incrociare qualche lupomannaro. Si credeva da tempo antico in Basilicata che un bambino nato la notte di Natale da grande diventava lupomannaro. Se femmina, si faceva strega. Le ragazze sospirose sapevano che non conveniva fidanzarsi durante le feste di Natale perché portava male. Potevano però scambiarsi i doni con “lu zit’” (=fidanzato). A Grassano, per esempio, il fidanzato donava un oggetto d’oro, di solito era una collanina (a Pasqua avrebbe regalato gli orecchini). A Colobraro, Rionero e in altri paesi il ragazzo mandava invece un capretto e lei controdonava con una camicia o altro indumento (mai intimo, però). Era diffuso nella regione l’uso di scambiarsi doni tra le due famiglie degli sposi promessi: dolci, torte, agnelli, galline, coniglio, ecc. Mai porzioni di maiale: per non insozzare la futura parentela.
Vito Riviello, nella sua cronaca potentina di fine Ottocento, scrive che “tornava anche piacevole e comodo di stare in due per le feste di Natale”, e cioè che era bene sposarsi in autunno, con la vendemmia. “Mai a Natale, sia perché la Chiesa lo vietava, sia perché porta male!” Messi da parte tali usi ‘sconsigliati’ , in questo giorno la vita di tutti si faceva più allegra. Almeno oggi a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare alla sfortuna. Dalla finestra si guardavano i trastulli della neve fitta e bianca che accecava nascondendo le montagne e smorzando ogni rumore. In casa il chiasso festoso copriva le voci. Si lasciavano davanti la porta di casa i debiti di sementi prese dal padrone. Tacevano le bestemmie dei duri uomini che si rompevano la schiena a zappare. Si dava più fieno all’asino. Loro, i ‘cristiani’, per far festa al Bambino e a se stessi, mangiavano: cominciavano con la salsiccia e la soppressata e le melanzane sottolio e il pecorino e il caciocavallo stagionato a dovere. Poi invadeva il profumo del sugo d'agnello coi maccheroni al ferretto e poi come un trofeo entrava la testina d’agnello con le patate al forno e poi il baccalà dall’ intenso profumo di un mare lontano. A gola spalancata, almeno oggi, glù glù a bere lo sciroppo di cantina uscito dall’uva nera e poi il moscato dei giorni di festa grande per fargli tenere compagnia ai panzerotti ripieni di farina di ceci e alle rotelle ricoperte di miele e agli struffoli e alle zeppole e ai mostaccioli. Basta! No, aspetta: ognuno metteva le mani a forma di scodella per riempirle di fichi secchi, mandorle, noci, castagne al forno. Si finiva con le “pettole”! Le avevano preparate giorni prima in un paiolo riempito a metà di olio di oliva. I contadini poveri usavano l’olio di stingi, cioè di bacche di lentisco. Quando era bollente si gettava la pasta tirata a cingoli. La padella friggeva e col suo profumo parlava col cielo.
I racconti di quelle sere non conoscevano i lupi, vagabondi con la luna, col loro ululato che bucava il buio della notte per trafiggere i cuori di paura. Non parlavano di briganti in mezzo al bosco che scannavano i galantuomini. Non dei tesori ammassati nelle loro grotte. Narravano di angeli belli, di nuvole bianche come l’anima di Dio, del cavallo verde che accontenta ogni desiderio. Parlavano anche di usignoli perduti in amore che si lamentavano tra un albero e l’altro….
Il Natale di un tempo ci giunge con malinconia, ora assorta ora trepida, esaltante di odori generosi, di un tempo ora nostalgico ora sentenzioso ora pungente. Ci trova quasi sempre innamorati di pensieri che non ci appartengono più. Il ricordo giunge vivo nella memoria e dalla memoria tenue emerge un……. Trilla il telefonino: bisogna risalire dalla stiva!







2 commenti:

Anonimo ha detto...

bellissimo articolo,pieno di ricordi e malinconia di un tempo passato. ma anche fra 50 anni
ci sarà sempre qualcuno che rimpiangerà l'oggi che per lui
sarà il passato da raccontare.
buon anno.
Un Campano.

Anonimo ha detto...

salve professore, sono una studentessa di scienze della comunicazione e volevo dirle che i suoi articoli richiamano numerose emozioni, sono belli davvero!Tornerò sul suo blog spesso...Ale