
14.09.08
Questa società lucana operosa e pressappochista, trasognata e drammaticamente senile, burlescamente magica e sottotono nella ricerca dell’infinito. QQQuesta regione invasa dalla comunicazione tecnologica [il computer in ogni casa! al secondo posto in Italia per i telefonini!] esibita con quella vanità ingenua proprio di chi ha un passato di povertà e che ora piacevolmente soggiace al consumismo. Questo popolo che ancora oggi celebra, a titolo diverso, numerose feste ogni anno, ma che si pone agli ultimi posti in Italia per la partecipazione ai riti religiosi e per la ancor più limitata frequenza ai sacramenti, che cosa costituisce e che cosa di sé è in grado di tramandare - come amore, solidarietà, tradizione, esempio - quale elemento connotativo della propria religiosità?
Questi interrogativi ci aiutano a farci intendere quanto sia mutata socialmente e culturalmente la Basilicata dai tempi in cui fu scrutata da Carlo Levi, che ne fece modello di povertà antropica; fu analizzata da Ernesto De Martino, che ne fece modello di arcaicità e di magia; fu indagata dai sociologi americani negli anni Cinquanta, che ne fecero emblema di miseria e di familismo amorale.
In un quadro d’insieme, la religiosità popolare in Basilicata aveva un suo spazio preciso che ha dato adito ad alcuni interrogativi: coi suoi riti e le sue processioni forniva forse uno spettacolo per esaltare le anime semplici? O essa era il risultato nobilitante della triste egemonia della classe dirigente? Certo, nel parlare di religiosità popolare lucana è stata spesso dimenticata la discrezione e la misura con cui bisogna riflettere su questa realtà tanto corposa eppure delicata perché tocca il profondo dello spirito. Ne voglio parlare brevemente, di ritorno dalla festa di Viaggiano.
In passato, parlando della religiosità popolare lucana, ci si è chiesto dove finisse la religione e dove iniziasse la magia. Spesso i due termini sono stati confusi. Non tenevano presente che in Basilicata la santità operante nelle forme di religione popolare non era, come giustamente precisò Gabriele De Rosa, “esercizio di potere ecclesiastico attraverso l’uso di formule più o meno magiche: il linguaggio dei santi si identificava col linguaggio del contadino. Non c’era, in altre parole, nessun distacco fra il gesto che compiva il santo e l’intelligenza del destinatario che usufruiva della benedizione o del miracolo”. In sostanza: il contadino non interpretava il miracolo come una violazione delle leggi di natura ma come prodotto della fede perché per lui la natura ubbidiva ai santi. Spesso a contraddire tali manifestazioni di fede erano le autorità ecclesiastiche, da vescovo in su, in quanto il clero dei paesi, nella maggioranza dei casi era “popolo”, sia per estrazione sociale che per osmosi con la massa contadina. Ma anche questo clero, allo spettacolo della miseria che faceva “smarrire” la dignità della persona in una turpitudine sociale palese, degradando il contadino spesso al di sotto del suo stesso livello umano, anche questo clero, dicevo, ribadiva dal pulpito la necessità, quasi l’obbligo, di alimentare la speranza. I tempi dei grandi freddi invernali, delle assetanti siccità estive, delle carestie allucinatorie, delle epidemie sterminatrici suscitavano un bisogno di miracoli. Una difesa dalle sventure faceva così nascere una devozione, che non tardava a essere ritualizzata e inserita nel patrimonio tradizionale.
Per un popolo di illetterati e di semplici [la Basilicata ha toccato perfino l’96% dell’anal-fabetismo], il culto si rivolgeva essenzialmente ai sensi. Coi suoi proverbi, il suo istintivo pessimismo assieme al buon senso terrigno, il contadino lucano, amico non delle “idee” metafisiche della pancia scarsamente piena, era però devoto di tutto cuore ai suoi santi. E non li abbandonava nonostante che essi non soddisfacessero sempre tutte le sue richieste di aiuto. Era fermo nel conservare nei loro confronti un’ammirata fede.
Se proviamo a leggere o ad ascoltare in registrazioni etnografiche i canti del Venerdì Santo lucano, saremo colti da un brivido di riverenza. Se poi prendiamo i canti dedicati alla Madonna l’impressione che se ne riceve è quella di trovarsi dinanzi ad una poesia allo stato selvaggio: sono sfoghi di dolore, di amarezza, di amore e di miseria di anime povere di tutto, che, attraverso l’invocazione, dichiaravano il loro amore a Maria.
Nella vita quotidiana immutata rimaneva appunto la speranza, che, sotto forma di una manìa, sorreggeva il contadino e lo nobilitava, che faceva uscire illibata la sua dignità morale da ogni umiliazione. Quest’ultima aveva, tuttavia, un luogo in cui manifestarsi in forme spesso sublimate: il santuario extramoenia. Ne erano 68 sparsi per le campagne. Sebbene i vari accadimenti naturali e la povertà minacciassero costantemente di immiserire la vita quotidiana dei contadini, questi ultimi rafforzavano il legame della loro religiosità alla natura pur nel suo manifestarsi spesso maligno. Tale aspetto di religiosità, legato alla miseria economica, all’accettato senso di rassegnazione sociale ha finito per assumere la fisionomia di “tratto culturale” del contadino lucano.
Oggi gran parte di quei santuari sono ridotti in ruderi. Su queste antiche case di silenzi confidenziali il tempo pare essere sospeso. Essi, più che dalla tristezza dell’ abbandono, sono segnati da una dolcezza crepuscolare. Sono qualcosa di simile ad una speranza disillusa. Anche le colline che li ospitano hanno il profilo delle cose delicate al loro declino. Forse il silenzio di queste pietre ci aiuta a capire che cosa sia stata la solitudine dell’anima dei contadini lucani di ieri. Queste pietre custodiscono in sé il segreto di tanti sospiri e pianti di uomini, i quali, volendo attenuare l’amarezza dell’abbandono, vincere la desolante solitudine, consolarsi della miserevole miseria, per secoli si sono rivolti alla creatura piena di grazie, piena di vita, pur se denominata in molteplici modi, dal nome Maria, la Madonna!
Tutti questo ieri. Oggi a Viaggiano è possibile incontrare ancora molti contadini, però segnati dai vizi piccoli borghesi televisivi e decorati di telefonino. Ma la loro dignità sociale è stata riscattata in pieno? Essi vengono tuttavia con fiducia a Maria e parlarle dei loro “nuovi” bisogni: per un posto al figlio disoccupato, per la liberazione del figlio dalla droga demoniaca, per la salvezza di un matrimonio, per guarire da una brutta malattia, per…e ancora per….La gente viene qui, a Viggiano, e punta lo sguardo carico di speranza al palco su cui siede Lei! E’ uno sguardo che passa sopra le teste degli uomini di potere, raccolti in un recinto, in bella vista. Separati dal popolo. Il quale, chissà, se potesse, chiederebbe loro di fare un voto: non venire, almeno per un anno a Viggiano per lasciarlo da solo con la sua Madonna!
Questa società lucana operosa e pressappochista, trasognata e drammaticamente senile, burlescamente magica e sottotono nella ricerca dell’infinito. QQQuesta regione invasa dalla comunicazione tecnologica [il computer in ogni casa! al secondo posto in Italia per i telefonini!] esibita con quella vanità ingenua proprio di chi ha un passato di povertà e che ora piacevolmente soggiace al consumismo. Questo popolo che ancora oggi celebra, a titolo diverso, numerose feste ogni anno, ma che si pone agli ultimi posti in Italia per la partecipazione ai riti religiosi e per la ancor più limitata frequenza ai sacramenti, che cosa costituisce e che cosa di sé è in grado di tramandare - come amore, solidarietà, tradizione, esempio - quale elemento connotativo della propria religiosità?
Questi interrogativi ci aiutano a farci intendere quanto sia mutata socialmente e culturalmente la Basilicata dai tempi in cui fu scrutata da Carlo Levi, che ne fece modello di povertà antropica; fu analizzata da Ernesto De Martino, che ne fece modello di arcaicità e di magia; fu indagata dai sociologi americani negli anni Cinquanta, che ne fecero emblema di miseria e di familismo amorale.
In un quadro d’insieme, la religiosità popolare in Basilicata aveva un suo spazio preciso che ha dato adito ad alcuni interrogativi: coi suoi riti e le sue processioni forniva forse uno spettacolo per esaltare le anime semplici? O essa era il risultato nobilitante della triste egemonia della classe dirigente? Certo, nel parlare di religiosità popolare lucana è stata spesso dimenticata la discrezione e la misura con cui bisogna riflettere su questa realtà tanto corposa eppure delicata perché tocca il profondo dello spirito. Ne voglio parlare brevemente, di ritorno dalla festa di Viaggiano.
In passato, parlando della religiosità popolare lucana, ci si è chiesto dove finisse la religione e dove iniziasse la magia. Spesso i due termini sono stati confusi. Non tenevano presente che in Basilicata la santità operante nelle forme di religione popolare non era, come giustamente precisò Gabriele De Rosa, “esercizio di potere ecclesiastico attraverso l’uso di formule più o meno magiche: il linguaggio dei santi si identificava col linguaggio del contadino. Non c’era, in altre parole, nessun distacco fra il gesto che compiva il santo e l’intelligenza del destinatario che usufruiva della benedizione o del miracolo”. In sostanza: il contadino non interpretava il miracolo come una violazione delle leggi di natura ma come prodotto della fede perché per lui la natura ubbidiva ai santi. Spesso a contraddire tali manifestazioni di fede erano le autorità ecclesiastiche, da vescovo in su, in quanto il clero dei paesi, nella maggioranza dei casi era “popolo”, sia per estrazione sociale che per osmosi con la massa contadina. Ma anche questo clero, allo spettacolo della miseria che faceva “smarrire” la dignità della persona in una turpitudine sociale palese, degradando il contadino spesso al di sotto del suo stesso livello umano, anche questo clero, dicevo, ribadiva dal pulpito la necessità, quasi l’obbligo, di alimentare la speranza. I tempi dei grandi freddi invernali, delle assetanti siccità estive, delle carestie allucinatorie, delle epidemie sterminatrici suscitavano un bisogno di miracoli. Una difesa dalle sventure faceva così nascere una devozione, che non tardava a essere ritualizzata e inserita nel patrimonio tradizionale.
Per un popolo di illetterati e di semplici [la Basilicata ha toccato perfino l’96% dell’anal-fabetismo], il culto si rivolgeva essenzialmente ai sensi. Coi suoi proverbi, il suo istintivo pessimismo assieme al buon senso terrigno, il contadino lucano, amico non delle “idee” metafisiche della pancia scarsamente piena, era però devoto di tutto cuore ai suoi santi. E non li abbandonava nonostante che essi non soddisfacessero sempre tutte le sue richieste di aiuto. Era fermo nel conservare nei loro confronti un’ammirata fede.
Se proviamo a leggere o ad ascoltare in registrazioni etnografiche i canti del Venerdì Santo lucano, saremo colti da un brivido di riverenza. Se poi prendiamo i canti dedicati alla Madonna l’impressione che se ne riceve è quella di trovarsi dinanzi ad una poesia allo stato selvaggio: sono sfoghi di dolore, di amarezza, di amore e di miseria di anime povere di tutto, che, attraverso l’invocazione, dichiaravano il loro amore a Maria.
Nella vita quotidiana immutata rimaneva appunto la speranza, che, sotto forma di una manìa, sorreggeva il contadino e lo nobilitava, che faceva uscire illibata la sua dignità morale da ogni umiliazione. Quest’ultima aveva, tuttavia, un luogo in cui manifestarsi in forme spesso sublimate: il santuario extramoenia. Ne erano 68 sparsi per le campagne. Sebbene i vari accadimenti naturali e la povertà minacciassero costantemente di immiserire la vita quotidiana dei contadini, questi ultimi rafforzavano il legame della loro religiosità alla natura pur nel suo manifestarsi spesso maligno. Tale aspetto di religiosità, legato alla miseria economica, all’accettato senso di rassegnazione sociale ha finito per assumere la fisionomia di “tratto culturale” del contadino lucano.
Oggi gran parte di quei santuari sono ridotti in ruderi. Su queste antiche case di silenzi confidenziali il tempo pare essere sospeso. Essi, più che dalla tristezza dell’ abbandono, sono segnati da una dolcezza crepuscolare. Sono qualcosa di simile ad una speranza disillusa. Anche le colline che li ospitano hanno il profilo delle cose delicate al loro declino. Forse il silenzio di queste pietre ci aiuta a capire che cosa sia stata la solitudine dell’anima dei contadini lucani di ieri. Queste pietre custodiscono in sé il segreto di tanti sospiri e pianti di uomini, i quali, volendo attenuare l’amarezza dell’abbandono, vincere la desolante solitudine, consolarsi della miserevole miseria, per secoli si sono rivolti alla creatura piena di grazie, piena di vita, pur se denominata in molteplici modi, dal nome Maria, la Madonna!
Tutti questo ieri. Oggi a Viaggiano è possibile incontrare ancora molti contadini, però segnati dai vizi piccoli borghesi televisivi e decorati di telefonino. Ma la loro dignità sociale è stata riscattata in pieno? Essi vengono tuttavia con fiducia a Maria e parlarle dei loro “nuovi” bisogni: per un posto al figlio disoccupato, per la liberazione del figlio dalla droga demoniaca, per la salvezza di un matrimonio, per guarire da una brutta malattia, per…e ancora per….La gente viene qui, a Viggiano, e punta lo sguardo carico di speranza al palco su cui siede Lei! E’ uno sguardo che passa sopra le teste degli uomini di potere, raccolti in un recinto, in bella vista. Separati dal popolo. Il quale, chissà, se potesse, chiederebbe loro di fare un voto: non venire, almeno per un anno a Viggiano per lasciarlo da solo con la sua Madonna!
Foto di Pietro L'Annunziata, Contatto di fede, Viggiano 2007 - Primo Premio Conc."Pietà popolare in Basilicata, 2008
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