Dietro uno scaffale della mia biblioteca trovo accucciato, fedele, un quadernetto con la copertina nera. Come quelli di una volta. E’ perfino impolverato. Sorrido contento e lo sfoglio. E’ di quando avevo vent’anni. Leggo di quel giorno e della conclusione fatta da quell’anziano malato della corsia dell’ ospedale San Camillo di Roma: “Adesso puoi dire di voler diventare chissà che cosa. Bisognerà aspettare a cinquant’ anni per vedere cosa hai realmente fatto”. La frase mi era sembrata un poco crudele verso ciò che stavo dicendo in quel momento. Parlavo dei miei progetti futuri di vita con l’enfasi di un soldato in partenza per la guerra e con la certezza di tornare vincitore. Abbassai il tono della voce per continuare a parlare al vicino di letto, anch’egli là per togliere le tonsille, come me. A suscitare l’intromissione era stata proprio quella mia enfasi voluta per apparire tenace e pieno di idee agli occhi di quel coetaneo della Garbatella, di pochi pensieri ma di molta esperienza di vita appresa ai mercati generali dove ogni mattina andava a lavorare prima dell’alba. Il signore che aveva sentenziato aveva capito che io volevo sbalordire lo scaricatore, un poco sbruffone come tutti i ragazzi della periferia romana per apparire sicuri di se, bonariamente aggressivi, pieni di parole dialettali ma poveri di studi. Forse aveva anche capito che con quella mia esibizione volevo evidenziare stupidamente un senso di superiorità intellettuale. Che stronzo che mi sentii in quel momento! La frase dell’anziano ebbe l’effetto immediato di farmi assumere un comportamento più alla mano con quel Sandro, tanto che alla fine della mattinata finimmo col farci delle confidenze sulle tecniche di aggancio delle ragazze della Garbatella….”
Chiudo il quaderno e mi chiedo cosa ho realmente fatto della mia vita…

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