lunedì 13 aprile 2009

RIDERE A PASQUA



E’ Pasqua. Auguri! Anche a quelli che non sanno il perché. Alcuni giovani universitari – fascia 20/25 anni - mi hanno motivato: è la festa della primavera; per mangiare colombe, agnelli e via! (da inorridire!). Altri: è una festa come ferragosto, si va fuori (da ar-inorridire!). Tralascio altre drammatiche amenità. Drammatiche perché da uomini dell’Occidente non conoscere uno dei punti centrali, anche se messi in discussione, della propria identità culturale significa predisporsi ad essere dominati da altre culture! E a dire che la Chiesa cattolica per secoli è ricorsa a strumenti inaspettati pur di fare entrare nella testa della gente l’importanza della Resurrezione. Per gli intellettuali c’erano i libri e le dispute. Per i popolani bastava l’arte figurativa nelle chiese e…E qui è la sorpresa per noi d’oggi, malati di perbenismo: c’erano le prediche oscene del giorno di Pasqua. Tecnicamente erano chiamate “risus paschalis” (= riso di Pasqua). Parliamone.
Nel mese di marzo del 1518 a Basilea un predicatore, grande anche per moralità di costumi, scrive una lunga relazione (oggi a Tubinga) in cui illustra i tratti principali delle prediche pasquali tenute nelle chiese tedesche. Il succo della relazione è questo: durante la messa di Pasqua, il predicatore suscita il riso dei fedeli. Questo riso è ottenuto con gesti e parole in cui predomina la componente oscena. “Essi [i sacerdoti] atterriscono con la voce e col tumulto dei gesti le donnette con finte minacce. Inoltre, sono bravi a raccontare barzellette e a fare scherzi presi a prestito dalle cucine. Spingono gli ascoltatori a ridere sguaiatamente mentre annunciano Cristo, scherzano con le parole oscene, imitando uno che si masturbi (il testo: “imitatione molli”), richiamano agli occhi le cose che i coniugi sono soliti celare nella loro camera e che conviene far senza testimoni”. Se ciò non viene fatto, continua l’estensore della nota, “i predicatori parlerebbero in chiese vuote. Il volgo, infatti, è talmente privo di giudizio, che ascolta soprattutto quel predicatore che eccita la gente con parole sconce o facendo il buffone sfacciato e con parole mescolate, o meglio, impiastrate di un riso indegno di quell’uomo e di quel luogo”. Lo scritto rileva poi che qualche vescovo biasima i predicatori soprattutto per gli scherzi inopportuni compiuti, “quasi che non sia lecito accogliere Cristo risorto dopo essere morto per noi, se non con gioia scurrile”. Quel “quasi che non sia lecito accogliere” ci fa capire che l’usanza è piuttosto consolidata e diffusa. Oltre a quanto detto finora, cos’altro fanno i celebranti durante la messa pasquale? “Uno, come un cuculo che si è mangiato i piccoli, ne imita il verso (“cucullus” in latino medievale significava cornuto, quindi il prete gioca sul doppio senso); un altro, appoggiato sopra un torello, fa finta di partorire un vitello estraendoselo da sotto la tonaca con schiamazzi degni di un’oca; un altro, avendo fatto indossare ad un laico il cappuccio per una notte, lo convince di essere sacerdote e lo conduce sull’altare. Un altro fa finta di essere scemo e su e giù per la chiesa cammina zoppicando e con la bocca tutta storta innalza lodi allo sterco; o restando nel suo ruolo atterrisce con fischi coloro che gli dicono di alzarsi; o che durante la predica fa il verso del gallo evangelico o di una ridicola oca...”.
Il risus è dunque un fenomeno radicato nell’area germanica del Cinquecento tanto da essere difeso anche da teologi valenti con moralità esemplare. Il popolo, con l’eccezione delle persone colte, lo apprezza molto e nessuno si chiede quale sia la sua origine. Tutti sanno che esso ha tre scopi: far andare la gente a messa la mattina di Pasqua, rallegrarla con qualsiasi mezzo, tenerla sveglia durante la predica. Il risus sguaiato è dunque provocato dal predicatore mediante azioni che si possono dividere in due gruppi: 1) scherzi e buffonate senza particolare riferimento alla sfera del sesso, come: imitazione del verso di animali, di personaggi grotteschi; far fingere da un laico di essere sacerdote; raccontare barzellette; fare gesti e dire racconti irriverenti; pronunciare parole senza senso. 2) oscenità, come parole sconce, offese al pudore, imitazione dell’atto sessuale, comportamento onanista e (forse) omosessuale.
E’ da notare che il risus faceva parte della liturgia pasquale e che era utilizzato anche da predicatori di gran cultura e di irreprensibili costumi. L’usanza era così diffusa che esisteva un manuale a stampa contenente i racconti e le battute oscene ad uso didattico-ecclesiastico. Tale manuale recava l’”imprimatur” della Chiesa.
Nella Germania del Settecento il risus è ancora praticato. Lo sanno anche Roma e papa Benedetto XIV, il bolognese Lambertini celebre per le sue larghe vedute e lo spirito ironico, indirizza una “esortazione pontificia” al clero tedesco affinché cessi di utilizzare nelle prediche pasquali i “racconti assurdi di poeti e i vani ornamenti di rètori” (così chiama spiritosamente le battute oscene). Ma l’uso continua. Sarà la successiva morale borghese a svuotare le oscenità più grevi, i gesti e le azioni scurrili, per relegarle entro i confini di un racconto spiritoso. Ciò dura fino a metà Ottocento. Nel celebre “Dizionario” Littré del 1889 la voce è ormai così esplicitata (traduco): “Riso Pasquale: buon racconto che i predicatori avevano l’abitudine di fare al loro uditorio il giorno di Pasqua”. Tutto è finito? No. La televisione, nuova chiesa universale, ha reintrodotto il risus, non più pasquale ma “annuale”. Alleluia!
12 aprile 2009

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