Ci piace avere spesso in bocca salsiccia e il prosciutto. E siamo esigenti nel pretendere che siano di buona qualità. Anche la sua carne è buona e di lui non si butta niente. Eppure di lui parliamo male: il maiale. Ci attira e ci respinge allo stesso tempo. E’ stato appurato che è un parente stretto dell’uomo, come la scimmia e l’orso. Per tale motivo non pochi studiosi lo qualificano come “nostro cugino”.
Lo abbiamo addomesticato tra il VII e VI millennio a.C. al tempo in cui inventammo l’agricoltura. Avvenne in alcune zone dell’Asia. Già erano stati addomesticati i cani, i caprini, ma lui diventò l’unico animale da allevare per mangiarlo. Si capì subito che conveniva perché non richiedeva molte cure, si riproduceva velocemente, aveva una carne gustosa e ricca.
I primi allevamenti ’intensivi’ si ebbero in Cina. Nella nostra cultura egli entrò con Omero (Ulisse, tornato a casa, sacrifica un maiale); La poesia e il teatro greco contengono bellissime descrizioni del suo ruolo rituale. Virgilio dice che Enea fondò la sua città nel luogo segnato da un maiale. Eppure gli antichi egizi lo vietarono per motivi religiosi. A ruota lo fecero pure gli ebrei e poi i mussulmani: per loro è ancora un animale impuro. Il cristianesimo – oddio! – lo elevò a simbolo della lussuria! a famiglio delle streghe! Nel contempo però lo ha posto sotto la protezione di sant’Antonio abate assegnando a lui il ruolo di animale domestico e al suo grasso qualità terapeutiche (guarisce dal male di sant’Antonio) .
In Basilicata il maiale non è stato soltanto “cugino” ma anche “padre nutritore” per il suo fornire carne, unica, alla famiglia contadina.
(continua)
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