UN LUCANO A DACHAU - Veniva da un’ Amburgo quasi incenerita dai 700 aerei inglesi con le loro bombe incendiarie. Là i nazisti lo avevano costretto a rimuovere quel che era rimasto, e con lui c’erano altri soldati italiani condotti prigionieri in Germania. Successivamente era stato trasferito al nostro campo. Aveva 19 anni ed era un bel ragazzo contadino. Ancora robusto, ma con la pazienza segnata sulla faccia. Fu messo nella squadra della sussistenza del campo. Era un tipo allegro e tutti lo chiamavano Sasà. Non capivo da dove derivasse tale nome che mi faceva ridere. Fu lui stesso dirmelo un giorno che venne nella lavanderia riservata ai crucchi. Parlava sottovoce e dal suo accento subito capii che era meridionale. “Mi chiamo Salvatore, sono di Calvello, in Lucania. Sai dove sta?” Gli dissi di essere lucana anch’io. Occhieggiando intorno, mi fece scivolare nella tasca una fetta di pane nero fresco, di quello destinato ai crucchi: “Tu sei l’interprete?” Annuii. Aggiunse: ”Mi hanno detto che stai preparando uno spettacolo con donne. Tutte donne. Perché non ci metti un po’ di sale?” --- “Ce vuoi dire?” ---- “Ci metti un uomo...” e rise con gli occhi. “Io so cantare.” --- “Mi hanno dato il permesso per sole donne. Che canti?” "Canzoni oletane, mica posso cantare canzoni milanesi.” Sorrisi al suo campanilismo e gli promisi di inserire il suo nome nella lista degli “artisti” da portare a Weiter per l’approvazione, (era l’ultimo comandante del campo). Lo spettacolino fu salvato proprio dall’allegria di Sasà, che non aveva una grande voce, anche se lui la definiva “da tenore”, intonato però. Eppure, dopo le canzoni napoletane, lì ad accendere un po’ di entusiasmo, egli placcò di silenzio i deportati spettatori, prima vagamente attenti, poi commossi per quel suo sommesso modulare i toni di alcune “ninna-nanna” lucane. Volle che io traducessi i testi prima di ogni brano. Erano parole e note di una intimità intensa. Tutti capirono che erano canti dolcissimi per futuri uomini pacifici.
(dal mio libro “La stanza”)
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