Mia madre di solito non impastava. Ci teneva però a farlo per preparare le pettole. Era una sua specialità. La ricetta l’aveva ereditata non da sua madre ma addirittura da sua nonna. Così diceva. E la ricordava bene a memoria. Forse perché era semplice.
La vedevo prendere un chilo di farina, il lievito, tenuto in disparte dall’ultima volta che era stato fatto il pane in casa, il sale, l’acqua intiepidita e impastava. Questo avveniva al mattino. Fatto l’impasto, lo poneva in una tovagliolo bianco (stiavuk’, in dialetto), lo copriva con lo stesso amore per un bambino, e lor riprendeva a sera. Mia sorella “doveva” accendere il fuoco per tempo. Posta una pentola bassa su fuoco, mamma si avvicinava con l’oliera in mano e, come antica vestale, versava molto olio con lentezza. Quindi infarinava il braccio sinistro e oliava entrambi le mani con le quali ricavava dall’impasto un lungo cingolo che appendeva al braccio. Versava nella padella d’olio bollente una quantità di cingolo dandogli forma di anello piuttosto grande (quattro per ogni calata nella padella). Era lei stessa, con la mano destra, a dare la giusta lunghezza ad ognuno di essi. Era abile, caspita se non era abile! A mia sorella toccava rigirare quegli anelli nei tempi stabiliti dallo sguardo inappellabile di mamma.
La tavola li accoglieva caldi, e noi, figli famelici, eravamo già pronti a raffreddarli nel vin cotto…
Tra le sue sei sorelle, lei faceva le pettole meglio di tutte. Con una scusa, passavo dalle sei zie apposta per assaggiare le loro pettole. Ci andavo con malizia, lo confesso, proprio per la curiosità di confrontare il sapore, la morbidezza, la fragranza. C’era una di loro che le faceva proprio male (non dico il nome per non mortificarla nella tomba). E allora era il caso che facessi un solo boccone e lei, nella sua generosità, insisteva per farmene fare altri. In più le dicevo – bugiardo – che le sue pettole erano migliori di tutte le altre. Chiedevo a mamma se le sue sorelle usassero una ricetta diversa dalla sua. Rispondeva vagamente e io non insistevo, orgoglioso, però. Ero ragazzo.
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