LA NOSTRA SCUOLA era un bell’edificio che non nascondeva la sua antica appartenenza a una famiglia di “galantuomini”, quelli della ricca borghesia terriera storicamente sanguisuga, per capirci. Era stato venduto allo Stato nell’impossibilità di mantenerlo, forse, o forse per debiti contratti per menare la bella vita a Napoli. Era stato adibito a scuola pubblica e si distingueva dal resto dell’ agglomerato di case intorno, tutte ad un piano che dalla facciata dicevano subito di appartenere a povera gente.
Non tutti i contadini mandavano a scuola i propri figli perché preferivano portarseli in campagna dove c’era bisogno di braccia per quei piccoli lavori che non mancano mai nei campi. Spesso avveniva che i carabinieri andassero a prelevare quei loro ragazzi e portarli a scuola. Qui sedevano tra i banchi con una certa vergogna per quei loro vestiti rattoppati che si vedevano anche sotto il grembiule. Di solito stavano in silenzio abituati com’erano in famiglia a parlare soltanto quando il padre lo permetteva. La maestra li vedeva un poco come degli intrusi e per questo non li spronava ad aprire bocca. Neppure frenava le nostre risate crudeli quando essi cominciavano a parlare in dialetto stretto stretto. Non conoscevano altra lingua. Vi erano tra loro alcuni “intelligenti nati”, come li chiamava con aria da sfottò la maestra, che però faceva finta di mostrarsi arrabbiata con quei genitori che venivano a riprendere i loro ragazzi per portarli sui campi (con lei ho imparato l'ipocrisia). La legge era contro di loro, ma loro ne avevano una propria: la legge del bisogno.
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