La mia infanzia è piena di buoni odori.
Del ragù di Nonna, che, prepotente, invadeva il vicinato fin
dall’alba.
Del pane appena sfornato che aleggiava per le vie del
quartiere da una tavola portata in testa dalla fornaia.
E c’era da esaltarsi, ed io mi esaltavo, ad una fetta ancora
calda coperta di mortadella.
Del forte odore dell’olio spremuto dalla grande pietra fatta
ruotare dall’ asino coi suoi giri intorno alla vasca piena di olive.
E c’era da esaltarsi, ed io mi esaltavo, al profumo morbido
delle poche gocce d’olio nel peperone tagliato a metà per la colazione con una
fetta i pane.
Dell’umido della cantina dove scendevo di nascosto e una volta abusivamente mi ubriacai e presi
il disgusto per il vino che ancora mi dura.
Chiudo gli occhi e ancora vedo i dolci esposti della vetrina
dell’unico pasticciere del paese. Percepivo il loro profumo anche attraverso il
vetro e intanto le papille già mi danzavano in bocca.
Mi rendevano felice,
veramente felice.
Uno solo odore ho odiato, quello dell’olio di fegato
di merluzzo. Violentemente subito per la mia buona salute, così dicevamo.
Eternamente orrendo.
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