Nelle
prime cinque sedute aveva raccontato la sua infanzia e adolescenza,
fino ai suoi 18 anni. Mi aveva chiesto, con grande garbo: “Quante
volte mi vuole incontrare?” “Tutte le volte che vorrà lei, è
importante che io abbia da lei tutte le notizie necessarie”. “Lei
è troppo esigente e curioso”, mi apostrofò con amabilità.
Dovevo scrivere il libro per la Rizzoli e quello era il momento in
cui la cultura di sinistra aveva “scoperto” la grandezza del
popolare Totò grazie al film “Uccellacci e uccellini” di
Pasolini girato l'anno prima.
In una
pausa delle nostre chiacchierate – ciascuna della durata massima
di due ore, come concordato, - e durante la quale mi offriva un caffè
'alla napoletana' – gli chiesi cosa pensasse di Pasolini. E lui
sorseggiando: “Lo sa una cosa, quando parlava io non lo capivo...
Quel suo modo di spiegare le scene, boh... Controllava ogni mio gesto
ma io ero abituato ad improvvisare, e allora non sapevo come
muovermi... Ma questo non lo scriva”, e giù una risata derisoria.
Gli era piaciuta la mia intervista fattagli mesi prima per la
prestigiosa rivista parigina di cinema "Positiv". Durante i
nostri incontri nella sua sobria casa ai Parioli, era stato sempre
estremamente gentile nei modi e misurato nelle parole. Non alzava mai
la voce e quando esprimeva qualche giudizio non positivo su qualche
collega di lavoro copriva con le mani il microfono (io registravo) e
sussurrava la maldicenza con aria divertita.
I nastri
di quegli incontri li ho poi ceduto alla RAI, che mandò in onda
alcune parti nella trasmissione radiofonica “3131” condotta da
Maurizio Costanzo.
Un'ultima
cosa: durante gli incontri io lo chiamavo 'principe'. E lui: “Come
debbo chiamarla? Lei è così giovane, sembra mio figlio... Dottore?”
“No, mi chiami Angelo, se vuole”. Usò sempre un “signor
Angelo” con quella sua voce in semitono. Mi è rimasta viva
nell'orecchio.
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