martedì 3 settembre 2013

(da "Feste Lucane" di prossima uscita)  
 I  CONTADINI  e la PIETA'


I contadini lucani erano abituati a sotterrare tristezze e amarezze sotto la paziente ripetizione dei gesti quotidiani. Sapevano bene che anche contro la loro volontà tutto continuava come prima: il sole si alzava e si coricava; il cielo sarebbe stato azzurro, il cielo grigio e mai avrebbero chiesto a se stesso chi mai l'avrebbe avuto sempre vinta nella vita. I giorni venivano e non potevano fare altro che venire. Che altro sennò?
C'erano anni in cui la calura pareva fare precipitare la fine delle cose e induceva a credere che la dolcezza non sarebbe più tornata su questa terra e nemmeno le nubi gonfie di acqua e neppure il vento che qualche sera veniva chissà da dove e chissà dove aveva fatto il vagabondo tutto il giorno. La fiumara si esauriva, si attardava sulle poche sabbie, inaridita in una luce giallognola, quasi bianca, tra i cespugli sparuti.
Con l'estate poteva arrivare la tristezza, a volte la disperazione. Allora andavano dal prete perché desse loro un santo della pioggia. Andavano per i viottoli di campagna in processione scalzi e, coperto il capo di spine, diretti al santuario dove inginocchiarsi davanti alla “loro” Madonna per invocare da bere per se stessi e per i campi perché se i campi non bevevano loro sarebbero morti di fame più di quanto già facevano tutti i giorni che il Padreterno mandava.
I bambini e le bambine in fasce morivano per il latte guasto dei seni materni, per le grandi calure, per la micidiale umidità che scendeva dal cielo. I padri e le madri piangevano, si rassegnavano in poco tempo, ne facevano un altro per riempire il vuoto, zappavano la terra, liberavano i campi dalle pietre, falciavano e affastellavano il grano, l'avena, sarchiavano l'orzo, e poi, poi davano quasi tutto al padrone in cambio dei debiti che rosicchiavano come la cancrena.
Finito tutto quanto ad agosto, andavano per le strade a onorare qualche santo e qualche Madonna perché li proteggesse: dalla tarantola, dalla febbre quartana, dalla scarlattina; domandavano pure di tenere lontano il diavolo dal loro asino, dalla loro capra, dai loro bambini.
In ogni santuario mariano, quando finiva di invocare, ogni donna taceva e il suo silenzio e lo suo sguardo, aggrappati all'urna di Maria, parlavano di rassegnazione. C'era pure qualche mamma che sedeva sul pavimento e posava nelle sue sottane sporche il suo bambino che ancora non parlava: in lei si era fatta la paura che fosse un idiota. Si può accettare di avere un figlio fuori dal tempo, senza fine né principio, che tutti guardano come si guarda un asino perché, si sa, asino e idiota sono eterni come il cielo e il sole, come la sventura, come le profondità spaventose della terra. E se la Madonna san Rocco san Donato, - non importa chi – non le avessero dato un segno, verso chi doveva volgere la sua bocca e i suoi occhi?
In quei santuari, davanti a quei santi e Madonne, si parlava poco, si invocava molto e si imparava anche presto il silenzio della sopportazione.
Lo sapevano quei contadini: quando sarebbero tornati in paese il padrone delle terre avrebbe scrutato ciascuno di loro come si scruta un albero, il colore del cielo, il cadavere in un fosso. Ai suoi occhi loro erano niente. No, non era vero questo, loro valevano quanto l'asino! Dovevano faticare e sopportare, sopportare perché sapevano che la miseria avrebbe potuto spingere ognuno di loro a
pregare la Madonna perché i pidocchi gli divorassero le ossa.











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