(da "Feste Lucane" di prossima uscita)
I CONTADINI
e la PIETA'
I
contadini lucani erano abituati a sotterrare tristezze e amarezze
sotto la paziente ripetizione dei gesti quotidiani. Sapevano bene che
anche contro la loro volontà tutto continuava come prima: il sole si
alzava e si coricava; il cielo sarebbe stato azzurro, il cielo grigio
e mai avrebbero chiesto a se stesso chi mai l'avrebbe avuto sempre
vinta nella vita. I giorni venivano e non potevano fare altro che
venire. Che altro sennò?
C'erano
anni in cui la calura pareva fare precipitare la fine delle cose e
induceva a credere che la dolcezza non sarebbe più tornata su questa
terra e nemmeno le nubi gonfie di acqua e neppure il vento che
qualche sera veniva chissà da dove e chissà dove aveva fatto il
vagabondo tutto il giorno. La fiumara si esauriva, si attardava sulle
poche sabbie, inaridita in una luce giallognola, quasi bianca, tra i
cespugli sparuti.
Con
l'estate poteva arrivare la tristezza, a volte la disperazione.
Allora andavano dal prete perché desse loro un santo della pioggia.
Andavano per i viottoli di campagna in processione scalzi e, coperto
il capo di spine, diretti al santuario dove inginocchiarsi davanti
alla “loro” Madonna per invocare da bere per se stessi e per i
campi perché se i campi non bevevano loro sarebbero morti di fame
più di quanto già facevano tutti i giorni che il Padreterno
mandava.
I
bambini e le bambine in fasce morivano per il latte guasto dei seni
materni, per le grandi calure, per la micidiale umidità che scendeva
dal cielo. I padri e le madri piangevano, si rassegnavano in poco
tempo, ne facevano un altro per riempire il vuoto, zappavano la
terra, liberavano i campi dalle pietre, falciavano e affastellavano
il grano, l'avena, sarchiavano l'orzo, e poi, poi davano quasi tutto
al padrone in cambio dei debiti che rosicchiavano come la cancrena.
Finito
tutto quanto ad agosto, andavano per le strade a onorare qualche
santo e qualche Madonna perché li proteggesse: dalla tarantola,
dalla febbre quartana, dalla scarlattina; domandavano pure di tenere
lontano il diavolo dal loro asino, dalla loro capra, dai loro
bambini.
In
ogni santuario mariano, quando finiva di invocare, ogni donna taceva
e il suo silenzio e lo suo sguardo, aggrappati all'urna di Maria,
parlavano di rassegnazione. C'era pure qualche mamma che sedeva sul
pavimento e posava nelle sue sottane sporche il suo bambino che
ancora non parlava: in lei si era fatta la paura che fosse un
idiota. Si può accettare di avere un figlio fuori dal tempo, senza
fine né principio, che tutti guardano come si guarda un asino
perché, si sa, asino e idiota sono eterni come il cielo e il sole,
come la sventura,
come le profondità spaventose della terra. E se
la Madonna san Rocco san Donato, - non importa chi – non le
avessero dato un segno, verso chi doveva volgere la sua bocca e i
suoi occhi?
In
quei santuari, davanti a quei santi e Madonne, si parlava poco, si
invocava molto e si imparava anche presto il silenzio della
sopportazione.
Lo
sapevano quei contadini: quando sarebbero tornati in paese il padrone
delle terre avrebbe scrutato ciascuno di loro come si scruta un
albero, il colore del cielo, il cadavere in un fosso. Ai suoi occhi
loro erano niente. No, non era vero questo, loro valevano quanto
l'asino! Dovevano faticare e sopportare, sopportare perché sapevano
che la miseria avrebbe potuto spingere ognuno di loro a
pregare
la Madonna perché i pidocchi gli divorassero le ossa.
Nessun commento:
Posta un commento