
Prima di metermi a scrivere questa nota ho bevuto dalla bottiglia di vino acquistato all'"Aglianico
wine festival" tenutosi a Venosa la settimana scorsa. Ho bevuto quel tanto che è servito per inebriarmi. In tale condizione dimentico lo squallore della politica nazionale, lo sconforto della politica regionale. E consento l'allentamento dei tirannici freni inibitori imposti dalla cultura. Inseguo gli angeli e mi sublimo. O dico sciocchezze....
Alzo il bicchiere: Alla salute! Lo sappiamo, è un modo augurale. Ve ne sono anche altri - Cin cin! Prosit! E altri ancora. Tutti servono a confermare la buona salute. O ad augurarla. Quanti libri sono stati scritti sul valore culturale del vino? Quanti i quadri dipinti in cui bottiglie, caraffe, otri di vino troneggiano sulle tavole o in primo piano? Quanti significati, molteplici e numerosi, gli sono stati conferiti dalle varie culture con i loro sistemi simblico-mitologici. E' avvenuto per secoli nell'area mediterranea. Ora avviene anche in altre parti del mondo, là dove si piantano antichi vitigni. Ma i valori mitologici del vino sono rimasti legati alla nostra area. I simboli originari ce li abbiamo noi: dalla Bibbia a Baudelaire, dai Vangeli a Philip Roth, da Euripide a.... A una infinità di scrittori e di testi che ci parlano del suo linguaggio, dei messaggi cifrati ad esso insiti.
Pensiamo alla ricca mitologia in cui si parla dell'umanità salvata dal vino: nella Bibbia c'è un Noé ubriaco e un ubriaco Lot, entrambi impegnati, seppure con diversa modalità, alla salvezza del genere umano. C'è nei Vangeli il primo miracolo compiuto da Gesù che alle nozze di Cana cambia l'acqua in vino e c'è l'ultima cena dove Lui porge ai suoi apostoli il vino dicendo "Prendete e bevete, questo è il mio sangue della nuova alleanza". Egli cioè istituzionalizza sacramentalmente e liturgicamente il vino, rendendolo complemento del pane, simbolo del suo corpo.
Molte trasfigurazioni, dunque, diverse nella forma ma univoche nella sostanza e nel significato . Per dire cosa? Per dire a noi uomini che il vino appartiene alla nostra personale geografia mentale, al nostro paesaggio culturale. Da sempre.
L'effetto "piacevole" dello sdoppiamento e dello straniamento da esso determinato è stato considerato analogo a quello procreativo e conservativo, e cioè equiparato alla piacevolezza dell'atto sessuale e del mangiare. In che cosa consiste questo piacere? Se proprio occorre ricordarlo, allora dirò che consiste nell'uscire da sé. Nella metamorfosi. Nell'oblio. Nella liberazione dalle censure imposte dalla nostra cultura.
Così posto il problema, non è difficile capire che parlare di vino, della collocazione dei suoi significati, è come parlare di pane e parlare di cibo, è come parlare di sesso. Nei paesi poveri – e tra questi la Basilicata di un non lontano passato – il vino veniva usato anche come alimento, finendo spesso per determinare un alto tasso di alcolismo tra quegli uomini che di pane ne avevano poco da mangiare. Ma ieri come oggi – siamo franchi – l'uomo ha sempre bevuto soprattutto per inebriarsi. Senza il piacere del vino, del sesso e del cibo una gran parte del genere umano non esisterebbe. Il piacere è necessario e specifico alla vita. Recita Thomas Mann "Il mistero della vita è innescato alla determinazione del piacere, che consente al genere umano di esistere, alle creature di sopravvivere".
Lasciando da parte le voluttà liricheggianti che il parlare del vino spesso determina, carico il mio occhio di qualunquista alla ricerca del perché quando in Basilicata si promuove un "wine festival" (festa del vino) non si riesce a dare un peso storico del "buono" e del "bello" legato a questo meraviglioso prodotto della natura, egregiamente manipolato dall'uomo per inseguire gli angeli e sublimarsi. O per distrarsi....
Per distrarmi sono andato al castello di Venosa. Nel cortile grande ho camminato da uno stand all'altro. Ho degustato qualche vino non regionale. Non ho assaggiato le specialità gastronomiche lucane: le mie papille gustative le conoscono dalla nascita. Ho spiato tra i banchi se se ci fosse qualche "novità" accattivante. Nulla. Ad uno stand pugliese ho acquistato prodotti gastronomici a prezzo conveniente che in un negozio lucano pago di più. Dal loggiato scedevano le note musicali e la voce di un soprano. La sera prima, nel corile grande, c'erano state le note dell'Aglianica Soul. Prima ancora avevo seguito qualche approfondimento con relatori bravi che mertavano un pubblico più allargato. Però... Mi sono chiesto: perché questa manifestazione non riesce ad andare al di la della Puglia? Nel senso che le presenze alla festa erano nella quasi totalità pugliesi (pochi i lucani, in verità. E ancora: come mai non è coinvolto il Ministero dell' Agricoltura, che pure ha delle competenze per la promozione dei prodotti? Perché non si pensa di allargare quest festival a tutto il Sud divenendo l'equivalente meridionale del Vinitaly di Ferrara?
I produttori lucani potrebbero consorziarsi con altri produttori del Sud per valorizzare l’enogastronomia e l’enoturismo del territorio meridionale (almeno quello peninsulare). In sostanza, creare un "Vinosud", non in polemica e neppure in concorrenza con Ferrara ma in parallelo per far sapere che esiste anche un sud vinicolo di eccellenza. E contestualmente far conoscere quali effetti ha determinato la cultura del vino sul nostro paesaggio. Quali le sue incidenze sull'economia locale. Quali arti meridionali lo hanno raccontato. Mi riferisco alle arti musica colta e musica folk (tanta musica folk!); agli oggetti d'uso quotidiano (la cosiddetta arte povera) e alla iconografia colta; alla letteratura colta e a quella popolare (lazzi, frizzi, detti, sentenze, ecc). Di materiali non ne mancano.
Se penso però alla mentalità locale – organizzartori e produttori – allora concludo che questa manifestazione continuerà a vivere nel suo orticello. Ma forse ho bevuto troppo...
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