domenica 9 maggio 2010

SIRENE E CITARISTI


La parola “siren” in greco significa “armonia. E Platone nella sua opera ‘Timeo’ dice che ciascuno di noi dovrebbe avere una sirena come assistente. Il motivo? Per evitare di arrabbiarsi ed essere dolci con tutti. Ci pensate voi che bello sarebbe per le conseguenze sociali che ne deriverebbero?
Dobbiamo ammettere che qualche governante nazionale ha preso alla lettera la raccomandazione del filosofo greco, circondandosi di tante sirene e sirenette per riempirsi di armonia e alla fine concludere che, in fondo, sopra tutti gli altri partiti politici, il migliore è il “partito dell’amore”!
Però… anche il governatore lucano non scherza: ha cooptato tante sirene nella sua Giunta e nelle direzioni generali degli assessorati da indurre qualcuno a pensare, maliziosamente, che egli si è ispirato al modello fornitogli dal governante nazionale. Ma non è così. Infatti le sirene-assessore non sono state da lui cooptate per il partito dell’amore ma per l’amore dei partiti (di cui ha bisogno per mantenersi in piedi). Peccato per lui!
Stessa logica per le ‘direttore’ generali: egli è stato obbligato a rimanere affascinato dalle condizionanti modulazioni vocali dei partiti e, quindi, ha chiamato a se queste sirene-amministratici, le quali, rispetto alle precedenti, hanno una vocalità in più: l’esperienza.
C’è da sperare, a questo punto, che tutt’insieme queste sirene facciano diventare il Presidente lucano non maggiormente dolce nel parlare (perché l’arte democristiana di ammansire già l’ha acquisita) ma più dinamicamente positivo nelle sue azioni di governo. Utili a tutti, ovviamente…
Cicerone ci racconta invece del fratello di Tiberio, di nome Caio Sempronio Gracco, tribuno della plebe (carica elettiva, questa) e fasutore delle famose “Leggi Sempronie” (qualcosa di simile a quelle invocate oggi da Di Pietro). Era un giustizialista contro il Senato, difensore e promotore di privilegi per sé e i suoi clienti (!). Quando parlava ai senatori era sempre incazzato ma quando si rivolgeva al popolo usava un tono pacato. Per controllare tale tono, mantenerlo accattivante e suadente, aveva adottato un’iniziativa che a noi pare singolare: metteva dietro di se un servo che suonava la cetra. Idea geniale!
Annota ancora Cicerone che il tono della voce si faceva più dolce, quasi sommesso, e il suono della cetra più forte, quasi a coprirla, quando Caio doveva dire una “bugia politica”, cioè fare qualche promessa che già sapeva di non poter mantenere. Vivaddio: aveva un poco di pudore. Lui! Comunque questa idea mostrò di essere una buona forma di autocontrollo, tanto da venire imitata da vari sovrani nei secoli successivi. Lo fece il Basilisco di Bisanzio, Alfonso V di Spagna, Carlo Magno, il Re Sole – che usava addirittura un quartetto, come Federico II di Prussia, alcuni re d’Inghilterra - ecc., fino a Berlusconi, che, mutati i tempi, ha dietro di se le televisioni per essere accattivante e suadente.
La cetra alle spalle di Caio (e degli altri a lui +successivi) aveva anche un valore aggiunto. Lo trovi nelle notarelle poste a pie’ di pagina delle narrazioni: esso consisteva nel coprire la “voce sive sono”, cioè coprire le più carnali, le meno razionali ed intellettualmente filtrate voci di tutte le manifestazioni sonore del corpo degli uomini potenti: i fiati, i soffi del naso, i sussurri, i sibili, i gorgoglìi, i tintinnìi, in breve i rumori al limite delle inarticolazioni che si producono nel corpo.
Il Presidente lucano, che non ha alle spalle nessuno straccio di televisione, ha però lo strumento legislativo che gli consente di avere un citarista (=suonatore di cetra) tutto per se. Lo ha acquistato da un giornale e gli ha assegnato due compiti: il primo, quello riconosciuto ai citaristi fin dai tempi di Caio; il secondo, di essere suo portavoce, nuovo valore aggiunto.
L’acquisto ha suscitato amarezza in molti (l’ho provata anch’io) perché egli, il neo citarista, scriveva quotidianamente sul giornale il suo editoriale pieno di fatti e misfatti del Palazzo del potere locale. Comprare il “suo” quotidiano era divenuto per tanti lucani una sorta di rituale mattutino utile a soddisfare il bisogno di sentire una voce “altra”, positivamente diversa dalle molte, quasi tutte, sintonizzate su una sola nota: il consenso di comodo. Che appiattisce il pensiero. Che svilisce la società civile.
Leggevamo le sue denunce che si estendevano, uniformi ma anche dialettiche, dal sussurrio al grido. I suoi articoli indignavano e simultaneamente nutrivano l’energia della miraggio per una società lucana migliore. In quei suoi editoriali si stratificavano, affollandosi, le speranze e le illusioni più segrete di molti dei suoi lettori.
Se prima Nino Grasso poteva dire, orgogliosamente, “la mia autenticità la devo affermare in quella lingua che mi viene dagli altri e che agli altri è utile ”, ora – forse, o senza forse – credo che dirà: “la mia autenticità la devo affermare in quella lingua che mi viene dal Presidente e che non posso respingere”. Faccio a lui lo stesso augurio che Roland Barthes fece nel 1981 ad un suo amico, portavoce di François Mitterand: “Lavora bene perché è necessario ben durare un po’ di più della sua voce”.

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