domenica 17 gennaio 2010

INCONTRI

Avverto il bisogno di parlare di Beniamino Placido e per farlo mi rifugio nel ricordo di una esperienza “bella”, tale da darmi coraggio e da qualificare quanto ancora è nella mia memoria. Voglio dunque accennare al momento in cui lo incontrai per la prima volta a Roma. Io già da tempo abitavo nella capitale e già da qualche anno mi ero laureato alla Sapienza.
Proprio in un’aula di questa lo conobbi. Mi ci trascinò un mio amico per farmi sentire “un meridionale un po’ scorbutico ma intelligentemente spiritoso” ma che era da ascoltare “per stile, tono e atmosfera”. Entrai in quell’aula affollata. Lui stava parlando di Jonathan Swifth, l’irlandese autore di pamplet satirici e romanzi, tra cui il celebre “I viaggi di Gulliver”. Questo prof. a me sconosciuto commentava la famosa “Favola della botte”, pubblicata nel 1704. E’ una feroce satira sulla presuntuosità e sulle certezze del clero cattolico, anglicano e calvinista imperanti in Europa. Io, che di prof. spiritosi e anticlericali ne avevo già conosciuto durante le frequentazioni universitarie, ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a qualcosa di “inaudito”. Sentivo dalle sue parole la rispettabilità dignitosa venerata dagli ecclesiastici fare un tutt’uno con la vanità, l’ipocrisia e il potere sulle coscienze e che tutto l’insieme di ciò li portava ad essere “la peggiore razza di piccoli odiosi vermi che la natura abbia creato".
La frase di Swifth era forte! Il prof. però la porgeva senza l’intento scurrilmente oltraggioso dello scrittore. Per spiegare poi perché mai questi avesse usato un linguaggio grottesco nel parlare del potere ecclesiastico, utilizzò una tale leggerezza e una tale sottile ironia da suscitare in noi che lo ascoltavamo un sentimento in cui umanità e orgoglio si fondevano in un amore per il pensiero libero. La lezione terminò con una battuta che ricordava agli studenti il diritto “assoluto” e inalienabile di valutare con ponderazione, sempre e qualsiasi cosa.
Con una specie di timore reverenziale mi presentai a lui. Da questo mio modo di agire egli subito mi additò con un “tu sei meridionale!” Gli dissi della mia provenienza e lui dal mio cognome risalì ad un suo ricordo d’infanzia in cui aveva fatto a botte con un mio omonimo. Gli dissi che era mio fratello, suo compagno alle elementari. In un incontro successivo, sempre all’Università, mi disse di volerlo “rivedere dopo vent’anni!”.
Lo accompagnai in Segreteria di Stato in Vaticano, dove mio fratello lavorava. E fu l’incontro di due mondi diversi: uno marxista e l’altro cristiano. Mio fratello Aldo, che era intelligentemente ironico al pari di Beniamino, gli disse “Non parliamo dei due ebrei che ci condizionano l’ esistenza” (Cristo e Marx). E si misero a parlare delle cose della vita. Passarono dalla sfera dell’intimità amicale a quella sociale.
Perciò dissero degli uomini della Basilicata e del loro mite fascino umano reso grottesco dal levismo e reso ancora più dolente da un politico democristiano dominante. Convennero sul fatto che in questa terra vi fossero stati uomini le cui aspirazioni non avrebbero mai potuto raggiungere il loro sviluppo se non si fossero allontanati da essa e agire così con pienezza di individualità e spesso di talento.
Poi pervennero ad una conclusione: stavano assistendo alla fine della Chiesa tridentina, - questo per mio fratello - , e alla fine dell’età borghese, - questo per Beniamino -. Furono d’accordo che entrambi i mondi nati dai “due ebrei” stavano fatalmente vivendo difficoltà e la transizione avrebbe portato a nuove vie: il possibile rinnovamento ecclesiale, per i cristiani, la possibile fine delle ideologie, per i laici. A tali affermazioni si fissarono negli occhi. Forse erano tutti e due consapevoli che le nuove vie avrebbero condotto a nuovi mondi e a nuove norme interiori ed esteriori. Disse il monsignore: “Forse verranno impensabili stratificazioni dell’anima, mondi più foschi…” e lasciò la frase sospesa. Il professore, il giornalista, il conduttore televisivo gli soffiò, quasi a completare la frase”…mondi più foschi e profondi del sentimento e del pensiero”.
Continuarono a parlare in un clima di affabulazione. Si congedarono sul filo del paradosso: il monsignore gli disse: “Da quando sto in Vaticano sono diventato anticlericale.” Il professore gli rispose: “Da quando sono socialista sono diventato antimarxista”.
Incontrandolo altre volte all’Università parlammo spesso de “La carne, la morte e il diavolo”, il celebre libro del suo grande maestro Mario Praz, libro che fece capire a generazioni di studenti il significato profondo del Romanticismo (quel libro è insuperato ancora oggi). Riferendosi a lui mi disse : “Sai, io invece sono l’uomo del piccolo formato, del giornalismo, nel quale non è necessario resistere per anni con eroica tenacia”.
Penso che non sia stato così. Grazie alla sua natura egli, all’università, in televisione, negli articoli di giornale, è stato capace di accogliere in sé la pienezza della vita. E grazie poi ad una concentrazione d’intelligente ironia ha acquistato chiarezza di se.

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