lunedì 5 ottobre 2009

QUEL GIORNO ALLE FRATTOCCHIE


Sono nato tanto tempo fa. Di solito non amo ritornare indietro. Ma debbo dire che quando ero giovanissimo fui educato dai gesuiti (liceo). Poi a Napoli, frequentando l’Orientale, stavo a pensione da una contessa vecchia ricca avara ma molto colta. Gesù mio: parlava sei lingue come se niente fosse e conosceva la filosofia a menadito! Non voleva sentire parlare di Gesù Cristo e di Carlo Marx: li considerava nemici dell’umanità. Io ridendo e scherzando avevo lasciato il primo e mi ero innamorato del secondo. Lei un giorno mi vide uscire dalla sede zonale del PCI (Partito Comunista Italiano) e subito mi invitò, con signorile eleganza, ad uscire da casa sua. Mi dispiacque. Assai! Ella entrò nel numero delle mie nostalgie.
Ho frequentato Sezioni della periferia napoletana e poi quelle dei quartieri borghesi di Roma, dove mi ero trasferito. Nelle prime ho sofferto la fame di giustizia, nelle seconde ho nutrito la repulsione. Da giovani è ancora possibile nutrire sentimenti opposti. Ma è anche sicuro che ci si accende di entusiasmi per cause da sostenere. Li ho nutriti quando mi mandarono alle Fratocchie, vicino Marino, nel cuore dei Castelli Romani.
Era il luogo dove i piccoli dirigenti crescevano. A prima vista restavi sorpreso della bella villa ottocentesca, della piscina, del campo di ping ping, della mensa comune e del devastante vino bianco dei Castelli. Dovevi pur restare tre lunghi mesi! E poi corsi, seminari, riunioni per realizzare il “processo di ristrutturazione della propria personalità”. Dovevi pur imparare stile, comportamento, modo di parlare da compagno. Ma prima dovevi fare pubblicamente, in assemblea, il racconto della tua autobiografia e della tua famiglia, scavare nelle debolezze della tua personalità, raccontare anche gli episodi segreti della tua esistenza, illustrare i motivi della tua scelta politica. Dopo di che intervenivano vari “professori” a riplasmarti. Leggevano la tua vita anche nei fondi del caffè della tua anima e tu non avevi tempo di crepare di tristezza.
Un giorno, in aula magna,mi fece effetto vedere entrare in aula un grande estimatore di Thomas Mann la cui opera in quegli anni cominciavo ad amare di un amore profondo.Era Giorgio Amendola. Veniva a parlarci non di Mann ma de “Il movimento operaio italiano dalla Resistenza al 1956”. Era l’anno 1967. Accanto a lui sedeva Giorgio Napolitano, coordinatore dell'ufficio di segreteria e dell' ufficio politico del PCI. Aveva allora 42 anni.
Durante la pausa, in giardino, gli andai vicino per dirgli che avevo sostato davanti alla bara di Lenin, a Mosca, nel mausoleo. Capì subito che ero del Sud. E così, brevemente, parlai con lui dei calanchi e dei giorni lucani e le mie parole non avevano la tristezza di un albero trapiantato altrove. Egli già conosceva noi lucani. Lo aveva appreso dai libri di Giustino Fortunato e di Carlo... Lo interruppi pregandolo di non nominare quel cognome che detestavo: Levi. Spiegai che col suo “Cristo che si è fermato ad Eboli” aveva cucito una targhetta che chissà quando noi lucani ci saremmo tolto di dosso. Sorrise alla mia intemperanza. Sorrise pure quando gli dissi che abitualmente diventavo pazzamente geloso delle mie nuove idee. Mi fissò: “Sta’ attento a non diventare fanatico. ‘La pietra che lanci non colpisce l’uccello che vuoi’”. Aveva citato Hikmet. Rientrammo in aula magna e parlò di etica politica. Una frase della sua persuasiva lezione-discorso mi sorprese: “guadagnate sempre il vostro pane col sudore della vostra fronte e sarete dignitosi”.
Lì per li pensai al libro della Genesi in cui la frase quasi simile – “col sudore del tuo volto mangerai il pane” – era stata pronunciata da Dio contro l’uomo, colpevole di aver colto il frutto dall’ albero della conoscenza, e di essere venuto così a sapere dell’esistenza nel mondo del bene e del male. Ma se nel Genesi il lavoro diventava una condanna, una possibile dannazione, nelle parole di Napolitano veniva coniugata la fatica, inevitabile, con la dignità della persona. Come a dire che il lavoro non deve essere strumento di abbrutimento dell’uomo e, nel contempo, l’uomo deve conquistare con sudore ciò che lo aiuta a vivere. Cioè con impegno. Senza sotterfugi. Senza malversazioni. Senza furberie. Senza scorciatoie. E così potrà badare alla dignità di sé. Della propria vita. Della propria famiglia. Dei propri compagni. Del prossimo al quale si vuole essere utili. La dignità è forte e dolce come la seta ed è l’uomo a tesserla con le proprie mani. Ricucirla dopo uno strappo diventa sempre penoso e comunque lascia il segno.
Frattocchie fu chiusa nel 1991. Segno dei tempi. Il ricordo di Napolitano è sopravvissuto: per la sua lezione sulla dignità umana, collegata alla tolleranza. E’ sopravvissuto il ricordo della contessa napoletana: per la sua dannosa intolleranza. A cosa serve essere colti ed essere intolleranti, negando così la dignità della persona?
Ho continuato a vivere come una fiamma credendomi cavaliere invincibile degli assetati. Di giustizia. Di verità. La fiamma mi ha consumato inutilmente e a mala pena non sono rimasto schiacciato sotto i tanti idoli crollati… E si finisce col vivere la solitudine ideologica, inevitabile pane di nostalgie che non sazia.

1 commento:

noisette ha detto...

Passo da qui, di tanto in tanto; mi sembra d'essere a casa..