5 ottobre 2008
Questo è l’Anno Paolino, cioè un anno dalla Chiesa dedicato a san Paolo, “servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio”, come dice lui stesso. Ebreo nato a Tarso, nella Turchia meridionale, tra il 5-10, fu decapitato a Roma tra il 64-67 d. C. E’ stato l’ideologo del cristianesimo nel senso che, mentre i vangeli narrano la vita di Gesù, egli ha elaborato su di essi un sistema di pensiero utile a definire i fondamenti dottrinali della nuova religione. In tale sistema parla anche di pazienza. Su questo argomento il suo pessimismo antropologico tiene duro. Nelle sue famose lettere è frequentemente e insistentemente inculcata ed esaltata la pazienza, virtù che può sembrare peregrina o poco simpatica o indolente rassegnazione. Tutt’altro: nel mondo classico essa era forma di fortezza, di virtù maschia. Addirittura veniva insegnato di resistere sempre e comunque di fronte a quanto è arduo, sgradito, difficile, oneroso. Lo storico Tito Livio ci informa che ai giovani romani veniva raccomandato di sopportare con coraggio le grandi disgrazie e le sventure (altri tempi!). Il nostro Orazio rincara la dose con “rimani coraggioso anche se ti casca addosso il mondo”! Certo, questa posizione è interessante ma poggia su un presupposto fatalistico, quindi in certo qual modo irrazionalistico.
Paolo scrive, invece, che la pazienza poggia sulla fede che genera la speranza. In che cosa? Innanzitutto nei beni celesti invisibili e questo rende l’animo paziente nella sopportazione dei mali terreni visibili (“se speriamo ciò che non vediamo, è per mezzo della pazienza che lo attendiamo”). Quindi la connessione della pazienza con la speranza è tema ricorrente nelle lettere paoline. Paolo non dubita di parlare, inoltre, anche di una “pazienza di Cristo” e persino di una “pazienza di Dio”. La pazienza è dunque virtù necessaria ogni giorno, se è vero che la vita ogni giorno è tribolazione ed è questa “che produce la pazienza”. Questa è virtù dell’uomo perché la speranza è virtù dell’uomo!
La pazienza è l’atteggiamento abituale che il lucano, ancorato alla speranza di un riscatto sociale, assume di fronte a tutto ciò che succede a lui e intorno a lui. A lui può toccare la vita di povertà, di precarietà, l’infermità del corpo, dello spirito, gli insuccessi, le tentazioni. Egli si rassegna scuotendo la testa. Non si irrita insorgendo contro il destino. Non si affanna agitandosi disordinatamente. No: subisce sussurrando la propria pazienza.
Inquietante è però quello che succede attorno a lui. Egli aspira a vivere in una comunità che sia di “pienezza sociale”. Si trova invece a campare in una regione che gli rende sempre più l’animo paziente nella sopportazione dei mali terreni gravemente visibili giorno dopo giorno. Non occorre enunciarli. Sono sotto gli occhi di tutti. Un dato non va però sottaciuto: i politici locali, con la loro ventosa loquacità, profanano la pazienza di questa gente che per secoli ha compiuto il grande sforzo di mantenere in piedi un minimo di dignità umana. Offendono questa gente che con le sue mani continua ad ignorare lo sperpero e la vanità e moltiplica il poco risparmiato con onestà e sofferenza.
La pazienza del lucano è in certo qual modo fatalistica, ma per quanto antica, essa non è irrazionale. Anzi! Egli sa che la tribolazione produce la pazienza. Per questo impreca sottovoce, forse maledice, a volte bestemmia, ma non adotta la violenza contestatrice (purtroppo?). Fermamente convinto di ciò, io credo che pensando a lui si possa parlare di
“pazienza di un povero Cristo” che sfida perfino la “pazienza di Dio”.
Paolo dice che la pazienza poggia sulla fede che genera la speranza. Questa significa anche fiducia nelle persone che ci stanno intorno, nelle persone che deleghiamo affinché con la loro opera ci aiutino a liberarci del nostro bisogno. Che dire? Riprendo un appunto per una mia lezione sul mondo contadino lucano, in cui ponevo agli studenti delle domande retoriche: “che cos’è sperare? Sperare è seminare. Che cos’è ridere? Ridere è raccogliere. Osservate camminare quell’uomo che spera. Perché spera? Perché reca sulle spalle il sacco di semi che sta per gettare nel terreno. Ma eccolo ritornare ridendo. Perché ride? Perché porta sulle braccia i covoni del raccolto. Il riso è il raccolto palpabile, la pienezza. La speranza è la semina, lo sforzo, il rischio, il seme esposto alla siccità, al deperimento, la spiga minacciata dalla grandine. Il riso è la parola. La speranza è il silenzio”.
Ma in chi può sperare il lucano? Forse in un giovane segretario regionale che quando parla si capisce da solo e che forse non riesce (o non vuole) a vedere che la realtà sempre più lo tradisce da sola? O forse sperare in un altro segretario che considera questa regione al pari di una piccola vicecontea medievale nella quale accendere soltanto fumi?
Ci consoli sapere che san Paolo ha anche detto che la speranza trasfigura la morte!….
[Foto di Gianni Santilio]
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Paolo scrive, invece, che la pazienza poggia sulla fede che genera la speranza. In che cosa? Innanzitutto nei beni celesti invisibili e questo rende l’animo paziente nella sopportazione dei mali terreni visibili (“se speriamo ciò che non vediamo, è per mezzo della pazienza che lo attendiamo”). Quindi la connessione della pazienza con la speranza è tema ricorrente nelle lettere paoline. Paolo non dubita di parlare, inoltre, anche di una “pazienza di Cristo” e persino di una “pazienza di Dio”. La pazienza è dunque virtù necessaria ogni giorno, se è vero che la vita ogni giorno è tribolazione ed è questa “che produce la pazienza”. Questa è virtù dell’uomo perché la speranza è virtù dell’uomo!
La pazienza è l’atteggiamento abituale che il lucano, ancorato alla speranza di un riscatto sociale, assume di fronte a tutto ciò che succede a lui e intorno a lui. A lui può toccare la vita di povertà, di precarietà, l’infermità del corpo, dello spirito, gli insuccessi, le tentazioni. Egli si rassegna scuotendo la testa. Non si irrita insorgendo contro il destino. Non si affanna agitandosi disordinatamente. No: subisce sussurrando la propria pazienza.
Inquietante è però quello che succede attorno a lui. Egli aspira a vivere in una comunità che sia di “pienezza sociale”. Si trova invece a campare in una regione che gli rende sempre più l’animo paziente nella sopportazione dei mali terreni gravemente visibili giorno dopo giorno. Non occorre enunciarli. Sono sotto gli occhi di tutti. Un dato non va però sottaciuto: i politici locali, con la loro ventosa loquacità, profanano la pazienza di questa gente che per secoli ha compiuto il grande sforzo di mantenere in piedi un minimo di dignità umana. Offendono questa gente che con le sue mani continua ad ignorare lo sperpero e la vanità e moltiplica il poco risparmiato con onestà e sofferenza.
La pazienza del lucano è in certo qual modo fatalistica, ma per quanto antica, essa non è irrazionale. Anzi! Egli sa che la tribolazione produce la pazienza. Per questo impreca sottovoce, forse maledice, a volte bestemmia, ma non adotta la violenza contestatrice (purtroppo?). Fermamente convinto di ciò, io credo che pensando a lui si possa parlare di
“pazienza di un povero Cristo” che sfida perfino la “pazienza di Dio”.
Paolo dice che la pazienza poggia sulla fede che genera la speranza. Questa significa anche fiducia nelle persone che ci stanno intorno, nelle persone che deleghiamo affinché con la loro opera ci aiutino a liberarci del nostro bisogno. Che dire? Riprendo un appunto per una mia lezione sul mondo contadino lucano, in cui ponevo agli studenti delle domande retoriche: “che cos’è sperare? Sperare è seminare. Che cos’è ridere? Ridere è raccogliere. Osservate camminare quell’uomo che spera. Perché spera? Perché reca sulle spalle il sacco di semi che sta per gettare nel terreno. Ma eccolo ritornare ridendo. Perché ride? Perché porta sulle braccia i covoni del raccolto. Il riso è il raccolto palpabile, la pienezza. La speranza è la semina, lo sforzo, il rischio, il seme esposto alla siccità, al deperimento, la spiga minacciata dalla grandine. Il riso è la parola. La speranza è il silenzio”.
Ma in chi può sperare il lucano? Forse in un giovane segretario regionale che quando parla si capisce da solo e che forse non riesce (o non vuole) a vedere che la realtà sempre più lo tradisce da sola? O forse sperare in un altro segretario che considera questa regione al pari di una piccola vicecontea medievale nella quale accendere soltanto fumi?
Ci consoli sapere che san Paolo ha anche detto che la speranza trasfigura la morte!….
[Foto di Gianni Santilio]
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1 commento:
Azzzz! Ma è proprio il prof Larotonda!
Ben approdato sulla blogosfera!
C'era bisogno di qualcuno di peso e di cultura.
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