ERA una Befana povera per quelli della ma generazione. Si era usciti dalla guerra, la seconda, e noi ragazzini avevamo poco anche per giocare. Ma con un po’ di fantasia riuscivamo sempre ad arrabattarci inventando qualcosa che ci facesse sorridere. Quel che non dipendeva da noi era il dono da ricevere dalla Befana. Nessuno di noi pensava di scrivere una lettera per chiederle questo o quello. Non era neppure immaginabile. Solo lei decideva cosa mettere nella calza rattoppata. Aspettavamo qualche piccolo premio, se meritato. Lei però poteva riempirla di cenere e carbone per ricordarci una nostra recente malandrinata. Se succedeva questo, allora andavamo ad accucciarci in un angolo di casa, immusoniti, ma senza protestare perché sapevamo di non meritare nulla per il nostro carattere un po’ ribelle. Se così non era, eh, cari miei, esultavamo nello svuotare la calza dai suoi due mandarini, un pezzettino – non un pezzo – di cioccolato, alcune caramelle, un paia di calze nuove, fatte a mano, per far stare caldi i piedi sempre freddi nelle nostre scarpe quasi sfondate. Oppure di guanti, anch’essi di fatti in casa, da mettere obbligatoriamente perché i geloni alle mani erano implacabili.
Ed eravamo felici.
P.S. Se a scuola andavamo male, la Befana nemmeno si affacciava sulla porta d casa…
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