Sono sessantacinque anni che non festeggio la notte di capodanno. Ero giovane e abitavo a Roma. Durante gli otto giorni che separano il Natale dal primo dell’anno cominciavo a gasarmi nei preparativi: pregavo mia madre di stirare bene i pantaloni, raccomandavo alla donna di dare alla camicia plessata un bianco splendente, tiravo a lucido le scarpe, cercavo nel cassetto i gemelli per i polsini. Con i miei quattro amici si dava fondo ai nostri risparmi, riuniti, per l’occasione, in un unico malloppo che affidavamo ad uno di noi, convinti che la sua tirchieria volesse dire anche capacità di spendere. Era bravo ad organizzare perché tutto andasse bene. E infatti, tutto andava bene: a cenare, a bere, a ballare fino allo sfinimento, a cazzeggiare a più non posso. All’alba si tornava a casa disfatti: occhi accalamarati, testa imbambolata, lingua sconclusionata, eppure convinti, fino alla punta dei piedi, di aver trascorso una notte meravigliosa.
E venne a casa la signora del piano di sotto. Era il primario di Pneumologia all’Ospedale Umberto I. Fumava come una turca impregnando anche casa mia durante le sue visite a Ilva, mia madre, per parlare anche dei “panni sporchi degli angeli”!. Si divertivano, loro. Natale era prossimo e lei mi fece: “Perché non passi con me la notte del 31?” Dall’espressione della mia faccia capì che la proposta non era allettante, dato i suoi cinquant’anni e passa. Mi rassicurò: “Mi aiuti a distribuire i pasti a quei poveracci della stazione ...Siamo in cinque”. Rimasi interdetto per la proposta e nello scoprire che lei, dottoressa prestigiosa, facesse una cosa simile. Sussurrai appena un “può darsi”. Mia madre non mi sollecitò ma io, dopo tre giorni, scesi al piano di sotto per dire di si.
Arrivò la sera del 31. Non ero in ghingheri e nelle orecchie ancora risuonava la presa in giro dei miei amici festaioli. Un furgoncino fermò sotto casa per prendere la dott. e me. Toccammo altri indirizzi per prelevare due donne e due uomini. Nella sede di un’associazione prelevammo parecchi pacchi dono di cibo e thermos. Strada facendo verso Termini il cuore prese a battermi per una emozione che non avevo mai conosciuto. La dott. mi guardò e sorrise. Arrivati, scendemmo dividendoci: tre al lato destro della stazione e tre alla sinistra. Là, addossate alle parete, c’erano parecchie persone stese per terra, avvolte in coperte e cartoni. Mi si seccò la gola: era la prima volta che vedevo da vicino esseri tanto poveri con la quotidiana difficoltà di non avere sufficiente cibo per poter mangiare. Ponevamo delle loro mani il pacco e brodo caldo. Loro ringraziavano con monosillabi di gratitudine. Non avevano parole di desideri di ricchezza, sete di affermazione e di potenza, altri pensieri che avvelenano l’esistenza quotidiana. Come potevano averli?
Era quella la povertà. Era quello il dolore. Era quella la chiusura ad ogni speranza.
Ed erano esseri umani!
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