domenica 2 novembre 2008

LE RADICI DEL CULTO


02.11.2008 - Un ragazzo fu ammazzato per disgrazia. Volle subito tornare su questa terra perché aveva ancora bisogno di carezze. Cominciò così a presentarsi a sua madre come un fantasma. Lei piena di sospiri scivolava sui contorni di quella piccola nuvola col suo palmo leggero. Cullava tra le sue braccia a nido il corpicino d’aria che era stato carne e sangue dentro di lei.. E baciava quella nuvola bianca e la nuvola bianca baciava lei. E lei era disperatamente felice perché un esile soffio invocava “mamma”. Una sera venne il camposantiere e suadente come un serpente disse all’ombra del ragazzo: bevi! è dolcissimo! e gli ficcò in bocca un cucchiaio pieno di liquido rosso. Il ragazzo bevve e subito la sua ombra bianca si dissolse con un lieve fruscìo e un silenzioso dolore. La madre urlò e chiamò suo figlio e urlò ancora e invocò quell’ombra bianca. Ma l’ombra non tornò e lei impazzì e per il dolore si divorò le mani. Maledetto quel liquido di sangue che cancella l’ombra dei morti per disgrazia!
Così un tempo si raccontava ad Irsina per ricordare l’amore per un figlio perduto! In Basilicata un tempo i morti continuavano ad avere rapporti con i vivi in varie forme. A mezzanotte del primo novembre, ad esempio, venivano in processione per le vie del paese. Li potevi vedere riflessi in un catino d’acqua posto sul davanzale della finestra e illuminato da tre candele. Purché tu fossi confessato e comunicato! Li scorgevi senza problemi se eri nato di venerdì santo perché questo era un privilegio che toccava soltanto ai nati nel giorno della Passione di Cristo. Oppure potevi vederli in sogno quando venivano a chiederti un suffragio o a darti consigli o a preannunciarti fatti lieti, o forse tristi. Tu li guardavi e piangevi ma ti consolavi perché sapevi che se si facevano vedere significava che ti volevano bene. Così si credeva da queste parti.
Che dolore quando moriva il capofamiglia, “palo che reggeva il tetto della casa”! Morto e vestito dai parenti col suo abito di nozze conservato per anni, cominciava il pianto. Nelle case contadine si alzavano “alte grida con colpi al petto ed al proprio viso, strappi di capelli per le donne, con abbracci e baci pietosi al morto con parole singhiozzate e rimproveri dolci per chi ha tradito la famiglia andandosene” (Crispino). Seguiva una sommessa cantilena per raccontare quel poco di bello goduto e quel molto di male patito nella vita che aveva vissuto. Era il “pianto-elogio”, come dicono gli antropologi. Acuto intenso scomposto diventava all’ arrivo del prete venuto a portarsi via per sempre quel povero Cristo senza speranza di resurrezione.
Si formava il corteo funebre. Da come era composto capivi se era di un contadino o di un “signore”. Un prete con una semplice croce portata dal sagrestano non si negava a nessuno! Ma una famiglia di signori metteva le corone di fiori e gli orfanelli -se in paese c’era un orfanotrofio - e la Confraternita della Buona Morte e i preti con stola nera. In qualche paese dietro la bara poteva esserci anche la banda musicale a rendere più solenne il penoso trasporto. Pure in chiesa c’era la differenza. Dipendeva dai quattrini “offerti” al prete: messa cantata e Dies Irae se pagavi, sennò soltanto qualche requiescat e l’aspersione. Questo secondo era il funerale “piccolo”. Quello “grande” prevedeva invece l’addobbo con un gran numero di candele e di fiori messi intorno ad un catafalco, “machina mortis” di memoria spagnolesca. Terminate le preghiere in latinorum, si andava verso il cimitero. Dalla chiesa partiva il corteo: quello di un contadino era breve, casa-chiesa-cimitero, ma quello di un signore andava per le stesse vie dove passavano in processione la Madonna e i santi!
Nei tre giorni che seguivano, la famiglia metteva sul tavolo una fetta di pane, un bicchiere d’acqua e una lampada ad olio affinché di notte quell’anima benedetta potesse tornare a nutrirsi. In altri paesi si pensava che quel pane potesse esserle utile nel suo viaggio verso l’eternità. Intanto qui, in casa, per sette-dieci giorni non si accendeva il fuoco e al cibo ci pensavano i familiari o il vicinato con ‘u cunzuòle (cibo funebre). Quando poi si riprendeva a cucinare, si riempiva un piatto per il morto e lo si metteva sul davanzale della finestra per essere consumato da un povero in attesa paziente.
Il periodo di lutto era poi lungo: dieci anni per il capofamiglia - e sua moglie non sarebbe uscita di casa per sei mesi -, otto per un figlio maschio – e sua madre lo avrebbe portato per tutta la vita-. Gli uomini di casa non si radevano la barba per quaranta giorni. Per cinque anni indossavano una pettina nera. Agli stipiti della porta d’ingresso si appendevano teli neri perché tutti vedessero che di là era passata quella Signora che fa diventare nuvola bianca chi le pare e piace! Quei teli neri aspettavano di essere scoloriti dal sole ma spesso il vento ci soffiava dentro e tu che passavi per strada li sentivi sbattere come grandi ali nere.
La familiarità con i morti era dunque diffusa in Basilicata perché alta era la mortalità, soprattutto nelle zone più povere dove l’igiene era poca e molta la fame. Ma se in casa entrava una farfalla bianca, quella era un’anima buona venuta a portare un augurio per qualcosa che desideravi, certo, qualcosa di diverso dalla miseria e dalla morte.
Questo succedeva in Basilicata, ieri.
Foto di Giovanni Santilio, La sentinella, in Lucania, Milano 2008

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